Europa

Le frontiere del benessere

Siamo ancora qua. A parlare di misure di benessere, progresso sociale, sviluppo, sviluppo sostenibile, welfare, well-being con o senza il trattino. Siamo in giro da più di 40 anni, forse […]

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 26 giugno 2015

Siamo ancora qua. A parlare di misure di benessere, progresso sociale, sviluppo, sviluppo sostenibile, welfare, well-being con o senza il trattino. Siamo in giro da più di 40 anni, forse anche qualcosa di più, ormai pubblichiamo nelle migliori riviste e simpatizzano per noi, o addirittura fanno parte di noi, importanti premi nobel e grandi istituzioni internazionali un tempo insospettabili. Il messaggio è sempre lo stesso e rivolto alla politica: il modello di sviluppo basato esclusivamente sulla crescita economica non ci porterà al migliore dei mondi, anzi. Cominciate quindi, per favore, a guardare anche ad altro oltre che al Pil.

Il messaggio è, più o meno direttamente, rivolto anche agli economisti che hanno legittimato con le teorie neoliberiste le politiche più miopi. Abbiamo proposto di tutto in questi decenni: Pil corretti, Pil verdi, indicatori sintetici, set di indicatori, indicatori di comunità, processi partecipati, cruscotti, mappe, classifiche e chi più ne ha più ne metta. Quelli di noi che stanno avendo maggiore successo sono quelli di destra. Quelli che non importano la società o l’ambiente, l’importante è l’individuo e il suo benessere e la sua felicità, se poi è felice da schiavo fatti suoi. Prima della crisi si parlava e si parlava non solo di noi: si parlava di ambiente, di globalizzazione, di giustizia: l’intero modello era sotto accusa. Con la crisi, politici conservatori come Sarkozy o Cameron hanno intravisto una via di fuga nel nostro lavoro: dove il Pil cresceva troppo poco quale migliore sponda di una vasta letteratura che affossava il Pil sotto molti punti di vista? Dove si è entrati in una profonda recessione, come in Italia, non si parla più di niente perché prima bisogna far tornare a crescere l’economia non importa come, non importa a che prezzo, non importa perché. Quel maledetto numero deve tornare a crescere e poi vedremo. Nel frattempo tutto è legittimo e giustificato.

Forse tutto sommato è anche colpa nostra, dovevamo concentrarci sul modello, proporre un’alternativa e invece ci siamo concentrati sui numeri, sui metodi, abbiamo litigato per le virgole, perdendo di vista il messaggio che era e rimarrà un messaggio culturale e non tecnico. Ed è forse anche per questo che ci sentiamo così lontani dall’obiettivo, i cambiamenti culturali non avvengono dal giorno alla notte e forse sono già in atto e non ce ne accorgiamo. Del resto abbiamo una legge presentata in parlamento, il che non è poco. E la società civile ancora si muove, sono rimasti in pochi a fare indicatori di sviluppo perché oramai su questo terreno sono arrivati i grandi istituti di statistica ma la frontiera della controinformazione, dell’animazione politica culturale non è scomparsa si è solo spostata. Prima si raccoglievano dati più o meno ufficiali e più o meno accessibili e li si usava come pretesto per chiedere di cambiare le politiche, è quello che per esempio ha fatto per tanti anni la campagna Sbilanciamoci! con il Quars. Ora si è scesi in miniera, e la miniera è il web. I minatori consegnano, trasformandoli da documenti inaccessibili a preziosissimi archivi organizzati, informazioni visualizzate in maniera semplice e intuitiva, montagne di dati: dai beni confiscati ai migranti sfruttati, alla finanza pubblica. C’è di tutto. Nascono così importantissime campagne di controinformazione come The Migrants’ files, Openbudget, Confiscatibene, Monithon. Speriamo sia sempre più difficile ignorarli.

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