«Non occorre essere forti per affrontare il fascismo nelle sue forme pazzesche e ridicole: occorre essere fortissimi per affrontare il fascismo come normalità, come codificazione, direi allegra, mondana, socialmente eletta, del fondo brutalmente egoista di una società». È noto che quando Pier Paolo Pasolini utilizzò queste parole per rispondere nel 1962 ad un lettore del settimanale comunista Vie Nuove che si diceva allarmato per il ritorno dell’attivismo, e della violenza neofasciste nella società italiana, stesse pensando a ben altro che ai nostalgici del fascio littorio: probabilmente al conformismo, alle derive culturali frutto del mercato, al «potere della civiltà dei consumi che sta distruggendo l’Italia». Eppure, proprio lo sguardo dell’intellettuale di cui si celebra quest’anno il centenario della nascita, può tornare utile per analizzare quella che con una certa dose di inevitabile approssimazione può essere definita come la traiettoria «del fascismo dopo il fascismo».

È QUESTO IL TEMA al centro dell’indagine di uno dei maggiori studiosi italiani della dittatura mussoliniana, del suo tragico epilogo a Salò come dell’eredità che quelle vicende hanno consegnato alla storia repubblicana per molti versi fino ad oggi. Pubblicato nella preziosa collana Fact Checking di Laterza, che intende sottoporre letteralmente «alla prova dei fatti» la Storia, Il fascismo è finito il 25 aprile 1945 di Mimmo Franzinelli rilegge gli oltre settant’anni che ci separano dalla Liberazione all’insegna delle tracce che quell’ingombrante passato ha lasciato nelle vicende del Paese.

L’autore procede per snodi tematici, come si conviene all’analisi di una materia viva pronta ad impastarsi in modo inestricabile con le contraddizioni dell’intera narrazione nazionale. Si tratta infatti, via via, di esaminare gli esiti di un’epurazione fallimentare, favorita anche dall’amnistia Togliatti, di ragionare sulle forme assunte da quella «continuità dello Stato» che ha riportato magistrati, prefetti e poliziotti a ricoprire dopo la sconfitta del nazifascismo gli stessi ruoli, spesso apicali, occupati sotto il passato regime all’interno della macchina della Giustizia o nella tutela dell’ordine pubblico.

Questo, mentre nel contesto dello sviluppo della Guerra fredda, la destra radicale andava riorganizzando le proprie fila sul piano della rappresentanza politica come del protagonismo militante nella stagione della tentata revanche armata, tra tentativi di golpe e stragi di massa.

Allo stesso modo, Franzinelli estende l’indagine fino ad oggi, esaminando le performance dei «fascisti del terzo millennio», riuniti nell’ampio circuito della destra giovanile e underground, spesso violenta e squadrista, come dimostra, tra i molti episodi, l’attacco alla sede nazionale della Cgil dell’ottobre dello scorso anno, oltre a ciò che definisce «il sottobosco fascistoide cresciuto attorno a Matteo Salvini e a Giorgia Meloni».

A chiudere il volume, fatti i conti con la memoria incarnata del passato nella vicenda repubblicana, un’importante sottolineatura riguardo a quanto ci si debba necessariamente ancora spendere lungo il crinale di quella «guerra dei simboli» che al fascismo ha consentito un’esistenza imperitura anche sul terreno dell’immaginario e della sua traduzione nello spazio pubblico. Un tema riemerso proprio in questi giorni di vigilia del 25 aprile con la decisione del comune di Carpi di confermare la cittadinanza onoraria a Benito Mussolini.

LA STORIA RICOSTRUITA da Mimmo Franzinelli è scandita da date, fatti, volti. E non è casuale che sia anche a partire dai percorsi biografici di alcune delle figure descritte che prende forma plasticamente quell’idea di una presenza mai del tutto debellata del fascismo nella società italiana. Come, tra i molti, indica il profilo di quel Marcello Guida, già direttore del confino di Ventotene durante il Ventennio che un quarto di secolo più tardi, alla fine degli anni Sessanta, fu «decisivo nell’orientare le indagini sull’eccidio di Piazza Fontana contro gli anarchici».

Lontano dalla continuità storica, ma altrettanto nel cuore di una società resa incerta e rabbiosa dalla crisi economica prima e dal Covid poi, parole d’ordine come «prima gli italiani», lungamente patrimonio del vocabolario dei neofascisti, possono finire per tradursi in un inquietante senso comune che cerca dei capri espiatori cui far pagare il proprio malessere. Su questo Franzinelli è netto, spiegando come «di certo il fascismo del Ventennio non ritornerà nelle forme storicamente inveratesi tra le due guerre mondiali». A costituire l’odierna minaccia per la democrazia non sono gli «inguaribili nostalgici», ma chi possa offrire «modelli rassicuranti», magari attraverso qualche figura carismatica, pronti a proiettare il disagio di molti verso la repressione delle minoranze o la conquista delle piazze.