In una bella intervista che il direttore di Le Monde, Jérôme Fenoglio, ha rilasciato a Marc Bassets di El País per gli ottant’anni della testata parigina, c’è una frase che in questo momento si dovrebbe applicare non solo alla Francia, ma al mondo intero: «Ci troviamo in un paesaggio di nebbia, vento e nuvole, e i punti di orientamento sono necessari».
Tanto maggiore è quindi la responsabilità dei media, soprattutto di quelli che hanno il potere di farsi sentire più di altri. In questo senso colpisce, in quel piccolo recinto che sono le pagine e i supplementi culturali, l’eco incredibile che ha avuto la classifica del New York Times dei cento libri migliori del ventunesimo secolo – dove, come si è visto qui la settimana scorsa, il concetto di «migliore» ha contorni piuttosto incerti.

Sembra infatti che ben pochi giornali in tutto il mondo abbiano resistito alla tentazione di commentare e di emulare, magari per contestarlo, il quotidiano statunitense, proponendo un loro elenco alternativo. E non solo i giornali, ma anche una miriade di singoli autori e autrici attraverso pagine cartacee e virtuali, nonché associazioni, biblioteche, librerie. Impossibile dar conto di tutte le classifiche, ma a proposito di librerie, vale la pena di dare un’occhiata a quella suggerita da The Bookshop, Inc e rilanciata dalla piattaforma Scroll: certo, per noi può essere spiazzante trovare che nell’elenco compilato da questa libreria indipendente di Delhi l’unico libro italiano, insieme all’Ordine del tempo di Carlo Rovelli, è Lessico famigliare di Natalia Ginzburg, uscito nel 1963. Ma la lista, per quanto sempre circoscritta a opere scritte o tradotte in inglese, ha il pregio di mostrare un mondo letterario dove i cinque continenti sono rappresentati in modo relativamente equo. Senza contare che forse l’inserimento all’interno della classifica di un romanzo pubblicato più di sessant’anni fa potrebbe essere indirettamente un modo per farci riflettere sulla prospettiva con cui guardiamo a certe scansioni temporali.

Obiettivo in parte analogo ha probabilmente avuto il trentaseienne filologo spagnolo Miguel Alcázar residente a Glasgow, mandando alle stampe per la casa editrice La Uña Rota un volume intitolato La crítica literaria en los 90 e che – scrive su El País Sergio Fanjul – si presenta «con una certa aria di serietà vintage, come una compilazione accademica della critica letteraria pubblicata nell’ultimo decennio del XX secolo su mezzi di comunicazione rinomati come Información 16, El reino de Castilla, la rivista Índole nonché l’immancabile e pregiatissima Peninsular».

Peccato che nessuna di queste importanti testate esista, come non esistono i tremendi autori delle recensioni «raccolte» da Alcázar («Noel Carrascosa, critico di Futuras Lecturas, noto per il suo alcolismo e la sua passione per la vita notturna», o «Francisco Aldeanueva, del Suplemento siglo XX, dinosauro con un gusto raffinato per le grandi opere letterarie e un ego altrettanto grande e non così raffinato» o «Andrés Marcos, alias l’Elfo Erudito, geek ossessionato dalla letteratura di genere»), mentre sono veri i libri recensiti.

È un gioco, naturalmente, che prima di diventare un libro è stato un account di X, ingannando non pochi lettori, caduti nella trappola di vedere negli anni Novanta «una sorta di Arcadia primitiva», un periodo felice nel quale la critica si poteva fare sul serio. Ma sarà stato davvero così?