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Il dramma, poi la discesa in un mondo onirico

Il dramma, poi la discesa in un mondo oniricoAndré Dubus III

Una intervista con André Dubus III, sul suo ultimo romanzo edito da Feltrinelli, «È passato tanto tempo», una traumatica storia familiare ambientata nel New England, che l’autore presenterà oggi al festival «Libri Come» Dopo il primo fortunato romanzo La casa di sabbia e nebbia, ambientato a San Francisco, André Dubus III è passato a prediligere il New England, dove osserva le disfunzioni contemporanee […]

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 17 marzo 2019

Dopo il primo fortunato romanzo La casa di sabbia e nebbia, ambientato a San Francisco, André Dubus III è passato a prediligere il New England, dove osserva le disfunzioni contemporanee della classe media americana, quella distribuita nella provincia fra Massachusetts e New Hampshire. Cresciuto nell’ambiente proletario e violento cui rimandava lo sfondo focalizzato di I pugni nella testa, memoriale liberatorio sulla sua adolescenza difficile, torna ora a dare un esempio della sua scrittura sempre nitida, precisa, evocativa nella giusta misura, in È passato tanto tempo (Nutrimenti, traduzione di Giovanni Greco, pp. 441, euro  18,50) risparimandoci, sebbene ne segua la linea d’onda, le straripanti scappatoie pronografiche di L’amore sporco, e mettendo invece più enfasi sulla colpa personale e sul dramma psicologico che ne consegue.

Nel romanzo si racconta come in un momento d’ira, Daniel Ahearn uccida la amata, paghi con la prigione e perda la figlia Susan affidata alla nonna, la quale si rifugia in Florida, lontano dalla cittadina balneare in cui si è consumata la tragedia. Anche la Susan adulta vivrà le sue trasgressioni e avrà i suoi problemi da fronteggiare, non ultimo il ritorno simbolico al padre, il genitore sempre bandito dalla sua memoria. Nel tentativo di riabilitarsi e afflitto dall’amore per la figlia, Daniel la cerca inutilmente: «Ancora una volta il nome di lei scorre attraverso il sangue di Daniel come un rottame alla deriva». Il rottame è il senso del suo errore, della sua vita gettata via in un attimo di cecità, di cui non si sente pienamente responsabile. Alla fine, anzi prima, l’incontro tanto atteso ci sarà. Ripercorriamo con André Dubus III alcuni dei suoi temi.

A cosa punta con maggiore cura quando inizia la stesura di un romanzo: all’idea da cui ha preso avvio e alla sua organizzazione, ovvero alla struttura del romanzo, al contesto urbano-paesaggistico, o all’intreccio e alla qualità della scrittura?
Per me, si tratta della discesa in un mondo onirico, innescato da una situazione umana, di solito problematica, che mi incuriosisce. Nel caso di È passato tanto tempo, il punto era: come metterla quando si ha alle spalle il peggio immaginabile nei confronti di una donna che hai giurato di amare e di proteggere assieme alla bambina che con lei hai messo al mondo? Come confrontarsi con lo scempio perpetrato nel rapporto con quella figlia, nel frattempo diventata adulta? Come si sopravvive a questa sfortunata congiunzione? Non penso mai a motivi portanti, a temi o simboli di alcun genere. Per abbandonarmi allo spazio onirico della storia, conto, questo sì, sul setting e sul panorama contestuale. Col tempo ho imparato ad affidarmi al mio istinto per la scoperta, e poi a cercare di tirar fuori il coraggio per seguirlo.
Lo sconquasso subìto dalla famiglia media americana è fra i suoi maggiori obiettivi nel rappresentare l’antropologia statunitense odierna. Lei pensa che siamo di fronte a fenomeni nuovi o – con le dovute distinzioni storiche e culturali – alla evoluzione di quella inquietante frattura che si era verificata negli anni Cinquanta e Sessanta all’interno del cosiddetto mito della perfetta famiglia americana?
Mi pare opportuno chiarire, intanto, che io non cerco mai di «dire» nulla in particolare quando scrivo un romanzo, piuttosto provo a esplorare, nel modo più onesto e simpatetico possibile, una specifica difficile situazione umana. Quindi, non è che cerchi, propriamente, di scrivere dello sconquasso della famiglia, anche se viene fuori nelle mie storie, forse perché ne ho viste già abbastanza nella vita vera. Flannery O’Connor dice che ciò che uno scrittore crede non sta in quel che ha sotto gli occhi, ma nella «luce attraverso la quale vede». Comunque, direi che nel 1970 il mito della perfetta famiglia americana si era già rotto malamente, a causa di un insieme di forze congiunte: capitalismo, femminismo, guerra nel Vietnam.
Mi sembra che lei sia addirittura ossessionato da un panorama sterile e violento completamente privo di affetti. Eppure, lascia sempre una porta aperta: alla fine c’è sempre una luce a indicare qualcosa al di là, forse la speranza di una catarsi. È d’accordo?
Credo che molti racconti presentino personaggi nell’atto di deviare da ciò che hanno di meglio in se stessi, ovvero il loro Io capace di amare, e penso che questo possa accadere a tutti, se siamo sottoposti a pressioni o stress. Non mi pare, però, che i miei personaggi siano «completamente privi di affetti». Sono d’accordo, invece, quando parla di violenza: è un mondo che conosco bene.
Lei sente la sua scrittura interna a qualche filone della narrativa americana contemporanea, per esempio al post-postmodernismo degli anni 2000?
Se c’è un nemico della creatività, questo è l’autoconsapevolezza. Di rado penso al mio posto nella narrativa americana, ma certamente non sono un postmoderno, anzi in quel panorama mi sento un fuori gioco. Hemingway, uno dei miei mentori, diceva: «Scrivere è facile finché non si pensa al lettore».
Ho l’impressione che talvolta ci sia qualcosa di troppo nella sua scrittura. Fa molte stesure prima di dare il volume alle stampe?
Revisiono costantemente. Forse le mie emozioni risultano straripanti, le do ragione. Sono un uomo passionale. E sì, rivedo ogni frase, ogni scena, ogni passaggio, e l’intera opera qualcosa come centinaia di volte prima di dire: «ho finito».
Forse, per quanto la domanda sia abusata, potrebbe dire qualcosa sull’impatto che ebbe l’11 settembre sulla sua narrativa?
Le dirò, intanto, che l’11 settembre è il mio compleanno. Molti scrittori all’epoca dichiararono che, di fronte a quell’evento, non confidavano più nel loro ruolo, ma io non reagii così. Non esposi la bandiera americana fuori di casa. Credo che il compito di uno scrittore sia scandagliare il cuore umano, è questo che a me pare al tempo stesso importante e opportuno. Se ho imparato qualcosa nei miei anni di lavoro, è che non si può riuscire nell’impresa di concepire davvero «l’altro», perché ognuno di noi è uno e niente di più. Anche perciò trovo il patriottismo inquietante, mi è sempre sembrato l’innesco possibile di una guerra.

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