Alias Domenica

Il dio della Musica e le Pagine Gialle

Il museo circolare di Gian Enzo Sperone: Pompeo Batoni «Quest’opera di Pompeo Batoni, il grande settecentesco che si modellava su Raffaello, è simile a quelle già possedute da Federico Cerruti, il collezionista ‘monaco’ a Torino»

Pubblicato circa un anno faEdizione del 20 agosto 2023

Pompeo Batoni, lucchese, andò a Roma nel 1727 quando aveva diciannove anni, e quando più tardi decise di impegnarsi nella ritrattistica non ebbe rivali, a parte, forse, Raphael Mengs, con cui non intrattenne mai buoni rapporti: ma io credo che se i migliori committenti, che arrivavano dall’Inghilterra e dall’Irlanda (viaggiatori del Grand Tour), bussavano subito alla sua porta, una ragione ci doveva essere. Anche in Italia fu molto ricercato, come prova lo strabiliante ritratto di Abbondio Rezzonico (ora a Roma): insomma, Batoni lo si potrebbe collocare ai massimi vertici della ritrattistica italiana del Settecento e non solo.
Tra le sue lettere, in una datata 1746 e diretta al marchese fiorentino Andrea Gerini, l’allora già molto apprezzato pittore rivela la sua ammirazione sconfinata per Raffaello, in cui vede tutta la perfezione in quello che si può fare nell’arte pittorica: «il divin pittore da me molto amato e venerato».
In questa bellissima opera, che ho avuto la fortuna di acquisire sul mercato antiquario, trova la sua piena espressione tutto il concentrato di qualità a lui ascrivibile: «il colore pastoso e al tempo stesso liquido e trasparente», come ha scritto di recente Liliana Barroero. Vi si rappresenta Apollo come Dio della poesia e della musica, nei tempi antichi attributi associati.
In quello stesso periodo (1740-’41) Batoni dipinse le due bellissime allegorie delle Arti, oggi entrambe nella fondazione Federico Cerruti a Rivoli (Torino), con cui il nostro dipinto condivide, oltre al soggetto, effetti cromatici e luministici. Voglio spendere qualche parola su Federico Cerruti, perché l’ho conosciuto più di quarant’anni anni fa, in occasione di una tentata vendita di un magistrale Inno Patriottico del 1915 di Giacomo Balla, poi non andata in porto (per mia incapacità a reggere le sue estenuanti trattative, legittime, per giocare al ribasso). È sempre stato infatti un negoziatore seriale, molto paziente e un po’ ribaldo.
Cerruti, il collezionista più prestigioso e intelligente nella Torino degli anni cinquanta e sessanta del Novecento, sceglieva solo opere di qualità altissima, dipinti, sculture, oggetti di arte decorativa, libri rari, che hanno reso la collezione unica nel suo genere nel panorama italiano ed europeo: opere di qualità museale che lo collocano nella ristretta élite dei collezionisti non classificabili.
Il «ragionier» Cerruti è stato un accorto imprenditore della legatoria industriale, stampando per decenni gli elenchi telefonici come le Pagine Gialle. È vissuto sobriamente come un monaco (non prediligeva i vagoni di prima classe), senza mai sposarsi, visto che era già sposato con l’arte, proprio come i religiosi con Dio, e forse per evitare impegni e distrazioni che intralciassero la sua forsennata furia collezionistica.
Anche se non pertinente al tema Batoni, devo continuare a divagare su suggestioni personali. Dire che ho sempre ammirato Federico Cerruti (come oggi i collezionisti milanesi Roberta e Gimmo Etro e gli Olgiati di Lugano) non rende abbastanza l’idea, giacché sono orgoglioso di possedere questo Apollo di Batoni così simile alle sue allegorie con Apollo, Dio delle Arti. Ho cercato sempre anche io, senza aspirare per fortuna allo stato monacale, di stare come lui lontano dai riflettori perché, come amava ripetere: «la tanta fama attira tanti problemi».
Le luci le ha piuttosto spese senza piccinerie a illuminare i suoi De Chirico, Pontormo, Bonzanigo, e tutti i grandi maestri della pittura e dell’ebanisteria nella sua collezione.
Questo mio Apollo, riconosciuto recentemente come opera originale anche dall’esperto di Pompeo Batoni Peter Björn Kerber, oltre che da Liliana Barroero, è probabilmente ascrivibile al quinto decennio del Settecento e appartiene quindi alla prima maturità dell’artista. Proviene dalla raccolta Erba-Odescalchi, l’eminente casato comasco degli Odescalchi entrato a far parte dell’aristocrazia papale romana in seguito all’elezione al soglio pontificio di Innocenzo XI (Odescalchi) nel 1676; Lucrezia, nipote del pontefice, sposò il nobile lombardo Alessandro Erba adottando così il doppio nome Erba-Odescalchi.
Tutto questo che ho appena scritto a proposito di Batoni spiega bene, o per lo meno me lo auguro, tutto il mio interesse di ex-avanguardista dell’arte contemporanea per l’arte antica. È quest’ultima un mondo di rimandi infiniti (come il gioco degli specchi, Pistoletto docet), che consentono di immaginare una mappa quasi uno a uno (in questo caso Borges docet) di poeti, sognatori, utopisti, che, ancorché non esista più se non nei manuali di storia, è la parte migliore del nostro passato: quello stesso passato che, ahimè, popolato di guerre infinite e atrocità, ha comunque portato il mondo a questo modello di civiltà, basato sulle regole – per la verità non molto condivise, poggiando anche su leggi divisive e in parte inique.
L’arte tende ad aspirare e ispirare un modello di condivisione stimolante, e che contenga in sé anche finalità etiche oltre che estetiche.
Come scriveva nel Cinquecento il filosofo mantovano Pietro Pomponazzi, prima di suicidarsi dopo le continue pressioni della Chiesa, «non si eserciti la virtù per guadagnarsi un posto in Paradiso ma perché è bella in sé» (e anche l’immortalità dell’anima non può essere dimostrata razionalmente). Questo non andava proprio a genio alla Chiesa Cattolica Apostolica Romana.
Tornando alle mie ragioni, chi se ne frega di perdere tempo ad aggiornarsi sui nomi e le date delle mogli di Picasso o delle celebrities, come si evince dalla lettura dei Diari di Andy Warhol, una fra le opere più noiose mai scritte da artisti. Ancorché pensata sul modello dei diari del Pontormo.

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