Cultura

Il desiderio che illumina la parola

Il desiderio che illumina la parolaApollo e Dafne

Poesia «Arco rovescio» di Giulio Marzaioli per la casa editrice Benway Series. Una architettura della pagina per far incontrare l’autore e il lettore. Una raccolta di versi a partire dal mito di Apollo e Dafne

Pubblicato circa 10 anni faEdizione del 27 agosto 2014

Il panorama della poesia italiana dell’ultimo decennio, in maniera sempre più urgente, deve fare i conti con una serie di esperienze «di ricerca» (come da tempo si preferisce dire, dissimulando conflittualità estetica) che formano un fronte compatto per quanto variegato (e allora non sarebbe scorretto parlare, invece, di avanguardia). Compatto perché organizzato attorno ad alcuni nuclei forti e formato grosso modo da un gruppo di autori (Gherardo Bortolotti, Alessandro Broggi, Mariangela Guatteri, Marco Giovenale, Andrea Inglese, Giulio Marzaioli, Michele Zaffarano) variamente presenti e attivi nel blog «gammm.org» (dal 2006), la collana Chapbook dell’editore milanese Arcipelago (ancora dal 2006), il volume collettivo Prosa in prosa (Le Lettere, 2009), il blog «eexxiitt.blogspot.it» (dal 2011), il convegno «EX.IT – materiali fuori contesto» (Albinea, aprile 2013); infine la collana Benway Series, creata presso un piccolo editore/stampatore emiliano (Tielleci di Colorno) per ripubblicare opere ritenute paradigmatiche della seconda metà del Novecento (a inaugurare la serie La sadisfazione letteraria di Corrado Costa, già Cooperativa Scrittori 1976) e per raccogliere alcuni dei frutti della ricerca attuale.
Tra questi è Arco rovescio di Giulio Marzaioli (Benway Series, pp. 96, euro 10, con traduzione inglese di Sean Mark), che prende a pretesto il mito di Apollo e Dafne, l’infruttuosa caccia alla ninfa desiderata dal dio della poesia (o «della parola esatta», come lo definiva Jean-Pierre Vernant), per mettere in scena, «installare» sulla pagina un brano di una dozzina di righe. Ciò che richiamerebbe gli Esercizi di stile di Queneau se non fosse che quelli giocavano sulla retorica del testo, mentre Marzaioli fa variare la sua configurazione materiale a forza di sparizioni e scorrimenti testuali non immemori, semmai, delle cancellature di Emilio Isgrò. A sostenere l’architettura del libro viene allestito un apparato iconografico che fotografa l’uscita da una galleria ferroviaria, fissata infine nella sua raffigurazione ingegneristica, un disegno tecnico che mostra la struttura su cui si regge l’arco di una galleria: i piedritti, la calotta e – nascosto alla vista, interrato – l’arco rovescio.
L’arco è tra gli attributi di Apollo, e da un arco – quello di Eros – si origina il desiderio per Dafne. Apollo è, tra le altre cose, dio della luce, che alla luce viene da Latona, la quale spesso è viceversa legata all’oscurità, e Marzaioli manipola le sue immagini giocando fondamentalmente sui contrasti, attestandosi su un livello di definizione basso (dogma della scrittura di ricerca sancito almeno dai tempi di Prosa in prosa e del coevo Tecniche di basso livello di Bortolotti, ma che qui è assunto funzionalmente a un preciso fatto visivo). «Venire alla luce» è d’altronde quello che fa il testo, definito gradualmente mediante una sorta di cut-up rovesciato che in tre mosse integra il testo iniziale – «Nell’ora meridiana più calda, quando si alza il frinire di cicale, sentì mancare il peso. Non ho fatto neanche in tempo, poi scomparve» – facendo scorrere le singole stringhe di testo nella posizione definitiva e corretta.
Definitiva e corretta ma non stabile, perché da questo punto in avanti (l’opera consiste in effetti di due movimenti, ascendente e discendente, quasi i due piedritti, che si congiungono al culmine del testo completo, che allora fa da calotta, e che ha precisi correlati testuali) intervengono lampeggiamenti che, sottraendo di volta in volta alla vista alcune porzioni di testo, fanno pensare a un fenomeno di nuovo legato alla luce, alla persistenza retinica delle immagini: i segmenti testuali paiono infatti persistere nella lettura del blocco che li sottrae alla vista. La loro visione, insomma, o la loro «presenza», non viene meno istantaneamente. È in questo fenomeno che ha senso il secondo movimento (che infatti cessa con un ultimo blocco completamente bianco, dal quale non potrebbe derivare un ulteriore episodio di persistenza), da leggere come resa visuale del procedimento del cut-up, che peraltro sta alla base di ciò che si fa riconoscere come l’arco rovescio della costruzione di Marzaioli, e dunque il suo elemento fondamentale e fondante: le note a piè di pagina, che prendono sì avvio con chiara mossa metatestuale, ma presto introducono a un’oscurità semantica tutta «poetica».
Qualcosa di stabile e costante nella varia apparizione e sparizione dei sintagmi e delle frasi, comunque, è dato. Si tratta delle caporali che dall’inizio alla fine delimitano lo spazio del testo primario più o meno assente, e lo delimitano come discorso riferito, o come citazione, come parola aliena, che non è lì dove noi siamo; qualcosa che sta altrove (nel mito, certo: il mito serve anche a marcare questa distanza) e che per di più nel manifestarsi al lettore, a noi presenti e vivi oggi, sottostà a una irredimibile incompletezza. In effetti la parola sempre, una volta detta o scritta, si distacca dal locutore, divenendo aliena. L’afferriamo come si può afferrare Dafne, cioè solo nella sua metamorfosi, nella sua trasformazione in qualcosa d’altro, che vale in fin dei conti proprio come sparizione o scomparsa. Del resto non è la sola Dafne, il suo corpo desiderato, a scomparire: appare e subito scompare, in chiusura, una lucertola, la vittima di Apollo Sauroctono (e in qualche modo suo sostituto, o almeno tramite con la natura terrestre di Dafne); scompare in ogni caso, assunto in cielo, lo stesso Apollo.
Se Marzaioli è riuscito a stabilire il rapporto fra testo e lettore quale analogo del rapporto tra Dafne e Apollo, allora Arco rovescio è, fra altre cose, l’allegoria della nostra sparizione. Il che di per sé non sarebbe neanche grave. Il fatto è che tale sparizione è l’esito della nostra velleitaria pretesa di possedere la parola, il linguaggio, i segni, la realtà. Di cui ciò che possiamo afferrare, per quel poco che possiamo, è una persistenza che ci lascia contorni sempre meno esatti, di cui sappiamo ricostruire il solo schema con l’astrazione pratica degli ingegneri.

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