Il click del controllo
David Lyon Le videocamere sono una presenza costante nell’arredo urbano. La novità da registrare è che anche le operazioni svolte in Rete o le comunicazioni personali sono diventate strumenti di sorveglianza. Un’intervista con lo studioso inglese per l’uscita di un volume che raccoglie un suo dialogo con Zygmunt Bauman
David Lyon Le videocamere sono una presenza costante nell’arredo urbano. La novità da registrare è che anche le operazioni svolte in Rete o le comunicazioni personali sono diventate strumenti di sorveglianza. Un’intervista con lo studioso inglese per l’uscita di un volume che raccoglie un suo dialogo con Zygmunt Bauman
Viviamo in realtà strettamente sorvegliate. Le città sono costellata da videocamere poste a difesa di edifici, banche, ospedali o per fotografare automobilisti o pedoni irrispettosi delle regole stradali. Dopo le rivelazioni di Edward Snowden, il sospetto che le comunicazioni in Rete e che i cellulari fossero messi sotto controllo è divenuto realtà. C’è poi l’inquietante e ormai usuale realtà che vede ogni azione compiuta usando una tastiera e un mouse registrata e memorizzata da imprese che fanno del commercio dei dati il loro core business. Infine, anche i messaggi scambiati su Twitter o i «mi piace» cliccati su Facebook diventano proprietà di queste due imprese, trasformando i nostri gusti e le nostre relazioni in materia prima per le imprese dei Big Data e per gli stessi social network. È all’analisi di questa realtà che si dedica da oltre trent’anni David Lyon.
Canadese, allievo in giovane età di Marshall McLuhan, Lyon ha documentato nei suoi libri l’«evoluzione» della società di controllo. Ha annotato l’emergere di altre forme di controllo sociale, sostenendo tuttavia che nella realtà contemporanee convivono diversi modelli di «sorveglianza» della popolazione, da quello tradizionale del panopticon a quello impalpabile, decentrato e pervasiva del synopticon, dove il controllo sociale è esercitato da una pluralità di istituzioni politiche e economiche. È di questi giorni l’uscita del volume che lo vede dialogare con Zygmunt Bauman. Il titolo originale è Liquid Surveillance, sorveglianza liquida. La traduzione che l’editore Laterza ha scelto – Sesto potere – è una convincente chiave di lettura del dialogo tra i due studiosi: la sorveglianza come dispositivo di potere. L’intervista parte proprio da questo punto
Nel volume “Sesto potere” scritto con Zygmunt Bauman usi spesso l’espressione «sorveglianza liquida». In passato hai invece privilegiato il termine synopticon per indicare il modello emergente di controllo sociale. La «sorveglianza liquida» è un’evoluzione del “synopticon” o indica, invece, una specifica forma di controllo?
La discussione se il modello del panopticon sia ancora capace di descrivere le forme di controllo nelle società contemporanea continuerà a lungo a riempire gli scaffali delle librerie. Così come aumenteranno i volumi sul synopticon, termine usato per indicare come il controllo sia divenuto un fenomeno decentrato e capillare. Ho usato l’espressione «sorveglianza liquida» per mettere a fuoco il fatto che anche la sorveglianza è ormai percepita come un elemento liquido delle relazioni sociali, al pari di quanto Bauman ha scritto sulla modernità liquida. Inoltre, è importante far emergere l’ambivalenza delle forme di sorveglianza contemporanea. Ci sono, infatti, tecnologie che aiutano a risolvere operazioni quotidiane, come comunicare, fare prenotazioni, acquistare un abito o un libro, ma che sono allo stesso tempo tecnologie del controllo sociale. È quindi essenziale rendere evidente ciò che non è ovvio nel senso comune: cioè che le informazioni accumulate durante queste operazioni quotidiane sono anche strumenti di controllo.
La società del controllo non è dunque una inquietante possibilità che si concretizzerà in un futuro più o meno lontano, bensì una realtà del presente. Nella società del controllo, la sorveglianza è diffusa e avviene attraverso dispositivi tecnologici – telecamere ad ogni angolo di strada, software per il riconoscimento facciale, macchine per scannerizzare il corpo, ma anche banche dati dove sono memorizzati i dati sensibili sulla nostra salute, il dna – e rapporti vis-à-vis dove ognuno è controllore dell’altro e al tempo stesso controllato dall’altro. Viviamo cioè in un mondo dove la sorveglianza non prevede un centro unico di controllo, ma è appunta distribuita.
La vicenda di Wikileaks e l’affaire Snowden hanno messo in evidenza il fatto che uno Stato abbia controllato sistematicamente le comunicazioni dei cittadini. La privacy è stata ridotta a un feticcio del passato, visto che gli Stati nazionali rivendicano la possibilità di controllare la comunicazione al fine di salvaguardare la sicurezza dei cittadini. Ci troviamo però di fronte a un fatto inedito, perché il controllo è esercitato in una realtà, come quella della Rete, che ignora i confini nazionali…
Siamo in una situazione che il cinema ha già messo in scena. Mi riferisco al film «Brazil», uscito quando la Rete muoveva i primi passi. Cito questo film perché il problema del rispetto della privacy in contesti dove sfumano i confini nazionali c’è sempre stato. Posso quindi risponderti dicendo che è un problema che ha bisogno di soluzioni nazionali, ma anche internazionali, cioè che coinvolgono tutti gli stati nel definirle.
L’Iran, la Cina, alcuni paesi dell’Est europeo, ma anche gli Stati Uniti vorrebero però estendere il concetto di sovranità nazionale alla Rete. Allo stesso tempo abbiamo visto motiplicarsi episodi di oscuramento della Rete, di censura, di divieto di accesso a siti sgraditi. Siamo di fronte alla fine dello spirito «solare», cosmpolita della Rete e all’inizio di una spirito plumbeo, invernale del cyberspazio. Qual è il tuo punto di vista?
Agli inizi della diffusione di Internet, le promesse di una democrazia radicale e di libero accesso alle informazioni e alla conoscenza erano sulla bocca di tutti. E stato così anche durante le «primavere arabe». Accanto alle promesse, però, abbiamo, come sottolinei, assistito alla diffusione di pratiche antidemocratiche che contraddicevano quelle promesse. La pratica della sorveglianza diffusa e pervasiva è infatti un fenomeno che non ha momenti di riposo. In Germania, ma anche in Brasile il monitoraggio continuo delle comunicazioni di cittadini tedeschi o brasiliani da parte degli Stati Uniti ha dato vita a discussioni accese, a prese di posizione sia della presidente braisilina che della premier tedesca critiche verso l’operato degli Stati Uniti. Non so però se i numerosi tentativi di censurare la Rete da parte di alcuni paesi o di controllare le comunicazioni in Rete, come è stato reso evidente dalle rivelazioni di Snowden, possono essere considerati come «l’inverno di internet». Ad esempio, si moltiplicano nel mondo le prese di posizione per fermare queste tendenza «securitaria» della Rete. L’11 febbraio, ad esempio c’è stata una giornata di mobilitazione globale «The day we fight back» che ha chiesto di fermare la censura e la sorveglianza della Rete. Sono segnali di una passione civile che chiede «politiche attive» per la comunicazione che non possono essere ignorate.
Internet è il regno dei social network. Facebook, Google, Amazon, Apple sono considerati «giganti» del controllo sociale. Anche in questo caso siamo nel limbo dell’ambivalenza. Miliardi di uomini e donne usano i social network per comunicare, anche se i profili individuali sono venduti come materia prima dalle imprese pubblicitarie….
Tutte le tecnologie e i software manifestano la loro ambiguità. I profitti sei social network dipendono dal commercio dei dati individuali di miliardi di persone. Certo, i consumatori possono essere lieti che le strategie pubblicitarie sono sempre più individualizzate. Dimenticando che i loro dati sono usati per una «sorveglianza commercializzata», qualificata nel lessico mainstream, come marketing. Il nodo gordiano da sciogliere è quello che lega le strategie di sorveglianza degli stati nazionali con le strategie imprenditoriali. Per scioglierlo, o tagliarlo, servono strategie mirate, consapevoli delle pratiche di sottrazione dalla sorveglianza messe in campo da singoli o da gruppi presenti in Rete. Cosa chiedono questi singoli o gruppi? Modalità di comunicazione che non siano sottoposte al controllo né dello Stato né delle imprese.
I Big data sono un emergente forma di business dell’economia digitale. Anche la sorveglianza è una sofisticata forma di business?
I big data sono l’essenza dell’economia. E tutti vogliono saltare su questo carro del profitto. Anche la sorveglianza è una forma di business. Possiamo esprimere dissensi o meno, ma questa è la realtà. Ognuno di noi può ritrarsi inorridotto di fronte questa piccola verità. Oppure può interrogarsi sulle sue conseguenze. Posso solo annotare che il business sui big data è diventato un fattore rilevante nelle economie capitalistiche. Nel linguaggio algido delle scienze sociali tutto ciò è qualificato come «Fair Information practies». Un’espressione neutra, certo, ma che qualifica l’emergere di un settore produttivo che non può lasciare indifferente. I singoli possono scandalizzari su come i loro dati sono usati. Sta di fatto che i Big data costituiscono un contesto produttivo che non può più essere ignorato. In fondo, è la nostra vita che diventa merce di scambio. E su questo non possiamo rimanere indifferenti. C’è però un fattore che meriterebbe una maggiore attenzione. Tutti si interrogano sulle cause sociali, economiche e politiche che hanno portato allo sviluppo dei Big Data. Pochi, purtroppo, concentrano l’attenzione sulla gestione delle conseguenze provocate dalle politiche della sorveglianza. Conseguenze che più che contenere accelerano lo sviluppo dei Big Data.
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