Quanto è confortevole leggere il presente in analogia con esperienze note. Piace ai commentatori politici superficiali, che non debbono innovare le griglie. Piace ai vecchi militanti, perché trattiene un senso per il proprio passato, vero o immaginario. Purtroppo nella maggioranza dei casi è fasullo. La storia non si ripete e quando sembra farlo, le differenze sono più significative delle ricorrenze.

È il caso degli attendamenti dei campus americani e poi europei che hanno evocato immagini del ’68 e del Vietnam, mettendo in parallelo due stagioni incomparabili e fornendo un non richiesto supporto genealogico ai giovani di oggi, che sono già incazzati di loro.

Allo stesso modo l’attuale congiuntura di guerra – che condiziona tutta la vita politica in Occidente e determina la militarizzazione dell’economia – viene spesso paragonato alla Guerra Fredda che si protrasse dal 1947 alla fine degli anni 60. Un periodo intervallato da guerre reali limitate, in Corea e Indocina, stermini locali e crisi al limite della rottura, come a Cuba nel 1962. La similitudine, però, non funziona: è anzi sviante.

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Nella “buona Guerra Fredda di un tempo” i campi erano nettamente organizzati in blocchi militari responsabili, cioè con uno Stato-guida. Il conflitto era tenuto sempre sotto controllo, ovvero gli oppressori schiacciavano gli oppressi ma non venivano fra loro allo scontro nucleare. Esistevano perfino motivazioni ideologiche nei due campi: una parvenza di liberalismo e un massiccio welfare a Occidente, rispettabili macerie del socialismo a Oriente. E fuori c’era il terzo blocco di Bandung e la nascente stella rossa cinese.

Oggi i campi sono imprevedibili e senza guida: magari è un bene, comunque cambia tutto. La Nato è un coacervo di schegge impazzite su linee discordanti e la sua tradizionale leadership Usa mai come adesso si è dimostrata incapace di controllare l’estremismo degli alleati, in Ucraina e nell’area baltica come a Gaza. Sul fronte opposto l’avventurismo di Putin ha per unico modello l’impero zarista con le sue mai dismesse aspirazioni sull’Europa orientale.

Se la Guerra Fredda vera era un regime di equilibrio mascherato da una retorica di scontro mortale, quella attuale presunta è un regime di disordine globale mascherato da armistizio apparente fra le grandi potenze. All’ordine del giorno non c’è lo scontro di civiltà, ma il caos mondiale, la crisi in permanenza. Questo fa saltare anche lo schieramento progressista, con la sua idea che ci possano essere i buoni da una parte e i cattivi dall’altra. Lo stesso sostegno tecnico a Putin, attivo da parte della Cina e passivo dal Sud globale, è meramente tattico e senza un riferimento ideologico (se non per sprovveduti “campisti”): si apprezza il fatto che tiene impegnati gli storici nemici e sfruttatori.

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Oggi perfino le “buone cause” con cui schierarsi sono parte del caos sistemico, che è il vero contenuto della congiuntura di guerra in cui siamo incastrati. Chi non voglia restare prigioniero dell’atlantismo ringhiante e neppure passare al servizio di zar Vladimir o del patriarca Kirill non ha altra scelta se non scommettere sul caos e farsene agente. Nel caos ci si muove con soluzioni aleatorie, montando opzioni geopolitiche realistiche e istanze contraddittorie di liberazione di classe, di genere e nazionali. La scommessa non è ridurre la complessità, ma tradurne alcune parti e combinarle in maniera imprevista.

Il montaggio più complicato è quello in cui entra in gioco il nazionalismo, che crea problemi anche nella sua forma più legittima: il riconoscimento di una identità negata. Perché il nazionalismo innesta comunque la logica escludente di una sovranità in urto con le altre. Soprattutto in aree geografiche che sono un mosaico etnico.

I curdi si sono messi sulla strada del confederalismo, i palestinesi hanno la disgrazia, oltre al feroce colonialismo sionista di insediamento, di vivere in una terra che un dio con tre nomi diversi ha promesso in esclusiva ai rispettivi seguaci. Sono situazioni ancor più complicate di quelle affrontate dai movimenti di liberazione degli anni 60 e 70, che già erano incappati in errori e insuccessi nel processo di nation building immaginariamente laico-socialista. Fallimmo noi e non tutto riuscì bene a loro. Figuriamoci oggi con Hamas e altri fondamentalismi nati sulla scia di quei rovesci. Eppure un immenso movimento sta sviluppandosi dentro questo ordine caotico e starci dentro è l’unica possibilità di fare politica. Forse perfino politica rivoluzionaria.