Il cantiere di Benedetti dedicato alla sua Montevideo ritrovata
Narrativa uruguyana "Impalcature", ritradotto da Nottetempo
Narrativa uruguyana "Impalcature", ritradotto da Nottetempo
Nelle Città invisibili, Italo Calvino scrive di Zenobia, «cresciuta forse per sovrapposizioni successive dal primo e ormai indecifrabile disegno» e di Zora «città che non si cancella dalla mente e come un’armatura o reticolo nelle cui caselle ognuno può disporre le cose che vuole ricordare: nomi di uomini illustri, virtù, numeri, classificazioni vegetali e minerali, date di battaglie, costellazioni, parti del discorso». Intorno a una città, Montevideo, che si struttura nella memoria per stratificazioni successive, in un eterno cantiere di allontanamenti e ritorni, lo scrittore uruguayano Mario Benedetti costruisce il suo romanzo Impalcature, datato 1997, la cui edizione italiana esce ora ottimamente ritradotta da Maria Nicola (Nottetempo, pp. 328, euro 16,00).
Anche la lettura di questo romanzo dovrà avanzare per stratificazioni e, come avverte lo stesso autore nel prologo, «se le impalcature, reali o metaforiche, non sono di suo interesse, consiglio al lettore di chiudere il libro e andare a cercarsi un romanzo vero, di quelli fatti e finiti».
Molteplici, i possibili attraversamenti: si potrà percorrere il romanzo in cerca degli innumerevoli indizi che portano a una ricostruzione politica, prima, durante e dopo il golpe che nel 1973 ha segnato tragicamente la storia dell’Uruguay; ma ci si potrà dedicare anche ai percorsi delle malinconie e degli amori, dei rimpianti, della solitudine e dei silenzi, verso «la ricostruzione immaginaria di un ritorno individuale». E, ancora, abbandonarsi alle fascinazioni musicali e cinematografiche che scandiscono le giornate del ritorno.
Oppure, in una sfuggente mappa mentale, il lettore sarà sfidato alla difficile ricostruzione di Montevideo, città immaginata, desiderata, ritrovata, da reinventare nella pluralità di prospettive che ne hanno segnato l’esistenza: «In questa città sono passati (con il loro sguardo): Sarah Bernhardt e Hugo von Hofmannsthal, Erich Kleiber e Louis Armstrong, Enrico Caruso e Albert Camus, Arthur Rubinstein e García Lorca, Roosevelt e De Gaulle, Borges e Fidel Castro, Neruda e Marcel Marceau, Juan Ramón Jiménez e Dizzy Gillespie, Gabriela Mistral e Vittorio Gassman, André Malraux e Che Guevara, Maurice Chevalier e José Bergamín, Jorge Amado e Rafael Alberti, Margarita Xirgu e Carlos Gardel. Negli ultimi tempi il livello dei visitatori illustri è notevolmente sceso: si chiamano Pinochet e Stroessner, Bush e Collor de Mello».
Settantacinque capitoli (impalcature) costituiscono il grande cantiere del romanzo, in costruzione come l’immaginario di chi torna dall’esilio nella città che la memoria ha conservato e segretamente trasformato nella dolorosa lontananza. Montevideo, nella lucidità velata di una grapa de limón, non è più quella di prima: prima che Javier, protagonista del romanzo, ne fosse forzatamente allontanato.
invece un luogo misterioso, fatto di memorie, desideri, nostalgie che si sovrappongono e si incastrano con la città del ritorno e lo sguardo nuovo che dovrà lentamente ricostruirla. Come tutte le città di mare, Montevideo ha una sua speciale vulnerabilità, estesa anche ai suoi abitanti: una malinconia che rende permeabili ai viaggi nella memoria, al pensiero sulle spiagge d’inverno, alle riletture critiche della propria vita, ai rimpianti, alla constatazione della fine di alcuni rapporti.
Nella prima impalcatura (primo capitolo) c’è già tutta la storia, tutte le informazioni sui personaggi e sulle loro traiettorie, sulle nostalgie e le avventure lavorative del protagonista, un mercante d’arte e giornalista, che nel ritorno a Montevideo dopo un lungo esilio, ora proprietario di una raffinata videoteca, dispensa film di Fellini, Rossellini, De Sica, e tanti altri. Poi si alternano capitoli (impalcature), di diversa natura: dagli incontri con gli amici ritrovati ai racconti necessari per riabbracciarsi, dalle lettere con Raquel, la ex moglie e la figlia, rimaste in Spagna, alla loro visione lontana del ritorno e alle loro domande sul presente di Montevideo: «Voglio notizie che prendono vita nelle acque profonde della calma» – scrive Raquel – «cose che non si trovano sui giornali».
Una impalcatura è dedicata al racconto delle prime esperienze sessuali – racconti intimi che si concludono in maniera sorprendente e comica – del gruppo di vecchi amici che si sono riuniti in onore dell’Anacoreta, il nuovo soprannome affibbiato a Javier, anche per via del suo lungo esilio. «Perché Anarcoreta? Se non aveva nemmeno letto Bakunin o Kropotkin. Forse lo chiamavano cosí perché non si era mai identificato in nessun gruppo, partito o movimento di sinistra. Era cosí anarcoreta che non si era trovato bene neppure con gli anarchici. Qualche volta li aveva aiutati, ma aveva aiutato anche i tupamaros e, sia pure meno spesso, i comunisti».
L’esperienza autobiografica dell’autore entra con forza nelle pieghe del personaggio: Mario Benedetti, scrittore, docente universitario, giornalista, farà ritorno in Uruguay dopo dieci anni di esilio, lontano dalla moglie Luz Alegre, compagna di una vita. Dopo il colpo di stato del 1973, era stato costretto a lasciare il paese, prima per Buenos Aires e Lima e successivamente per l’Avana e Madrid.
In Impalcature prende forma dunque una sinfonia del ritorno, che attraverso la pluralità di voci del romanzo, restituisce con profondità le ragioni dell’esilio, la ricostruzione degli anni che precedettero il golpe del 1973, ma anche lo sguardo di chi è rimasto, di chi è finito per lunghi o brevi periodi in prigione, di chi è stato torturato. E tuttavia Benedetti riesce a muoversi tra le impalcature della memoria, senza mai abbandonarsi alla malinconia ottusa della rassegnazione; anzi, adotta una saggia ironia grazie alla quale, anche dopo essersi immerso in qualche abisso, il lettore viene risollevato al senso misterioso e pieno della vita.
C’è anche, tuttavia, una sofferta presa di coscienza: l’esilio, nell’uomo, è forse una condizione innata, uno strappo doloroso e necessario, una sfasatura, un cortocircuito spazio-temporale dell’assenza. Un’assenza che è allo stesso tempo lacerante e prolifica, densa di cadute e di perdite, ma anche di possibili rinascite e di rischiosi ritrovamenti.
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