Economia

Il blocco edilizio: la lotta per la casa è anticapitalista

Il blocco edilizio: la lotta per la casa è anticapitalistaValentino Parlato in redazione – archivio manifesto

Una linea alternativa non si inventa: prende forma, nel corso del tempo, attraverso le esperienze del movimento, la riflessione, il confronto polemico, anche. In questo numero della rivista emerge un […]

Pubblicato più di 7 anni faEdizione del 3 maggio 2017

Una linea alternativa non si inventa: prende forma, nel corso del tempo, attraverso le esperienze del movimento, la riflessione, il confronto polemico, anche. In questo numero della rivista emerge un primo abbozzo alternativo, del quale cerchiamo di isolare i tratti essenziali. E va ricordato che a rendere alternativa una linea non basta, né è necessaria, l’attribuzione di un obiettivo, «più avanzato». Non occorre essere strutturalisti per capire che il segno di una linea dipende dall’organizzazione dei suoi obiettivi e dai rapporti intercorrenti tra obiettivi e forze sociali. (…)

Schematizzando al massimo, si caratterizza per cinque qualificazioni: a) assere anticapitalista; b) avere come sua avanguardia i lavoratori privi di abitazione e gli inquilini poveri aggregati in base alla loro qualificazione sociale; c) fondersi su un movimento di vertenze sociali autogestite; d) avere l’obiettivo della casa come servizio sociale, rompendo l’attuale tipizzazione privatistica del prodotto casa e del suo uso; e) avere l’obiettivo della nazionalizzazione del settore edile, oltre all’esproprio generalizzato delle aree.

Di questi punti, qui si considerano rapidamente solo il primo e gli ultimi due.

a) Caratterizzare come anticapitalistica la lotta per la casa, consegue alla constatazione che il capitalismo in nessun paese è stato finora in grado di assicurare un’abitazione abitabile a tutti, e quindi che il problema non si risolve attraverso riforme, ma solo attraverso il rovesciamento del sistema. Le prevedibili obiezioni di nullismo appaiono miopi e avvocatesche. La risposta più facile sarebbe nel dire che il grosso concentrato di nullismo politico si trova nelle opere di Marx, o che ripubblicare la Questione delle abitazioni di Engels senza una prefazione che spieghi come con la Gescal o con l’attesa legge urbanistica sia cominciata o comincerà una nuova fase del capitalismo, sarebbe prova di massimalismo intellettualista. E a voler rimanere sempre ai primi elementi di marxismo si potrebbe ancora ricordare che in Salario, prezzo e profitto, Marx – che pure aveva insistito sul fatto che il proletariato si sarebbe liberato solo attraverso la distruzione del capitalismo – non ritenesse ciò incompatibile con la lotta operaia per migliorare i salari reali.

Dire che questa lotta deve essere anticapitalistica se vuole avere un senso, significa avere chiarezza del problema e quindi della necessità di condurla in connessione con le altre lotte (anch’esse di segno anticapitalistico), quelle operaie e quelle per la conquista di alcuni strati di ceto medio (gli statali per esempio), quelle contadine e quelle meridionali. Significa che questa lotta deve avere un respiro ideale e culturale comunista, deve alimentare – traendone forza – un contropotere di classe. Nel caso delle abitazioni vale ripetere che «l’opposizione tra la mancanza di proprietà e la proprietà, sino a che non è intesa come l’opposizione tra il lavoro e il capitale, resta ancora un’opposizione indifferente».

d) Fare della casa un servizio sociale comporta assicurare a tutti l’abitazione in base ai bisogni di ciascuno: è un obiettivo comunista, ma è raggiungibile, e già oggi può consentire di migliorare le condizioni di abitazione degli strati inferiori della società. Le esperienze del boom e le decine di migliaia di case vuote dimostrano che non ci troviamo di fronte a impossibilità per carenza di capacità produttive in astratto, ma ad impossibilità derivanti dai modi di operare di queste capacità, dai profitti ai soprapprofitti e sprechi da eliminare. L’ingresso nel settore edilizio di grandi gruppi imprenditoriali annuncia una industrializzazione e una più spinta tipizzazione della produzione; la rivendicazione della casa come servizio sociale può consentire di intervenire su questa tipizzazione e sulla sua graduazione contrastando, sulla base di una impostazione egualitaria, una differenziazione del prodotto in base ai livelli di reddito e cercando di ottenere che la stessa tipizzazione corrisponda a scelte autonomamente elaborate dagli utenti delle case e dagli architetti. Non si tratta di definire modelli di case per il futuro, ma ribadire che, in quanto consumo sociale, l’abitare si deprivatizzerà e casa e città dovranno assicurare ricchezza di libertà individuale e intensità di rapporti sociali nel senso di Marx, quando scrive del «comunismo come soppressione positiva della proprietà privata» e dei modi privatistici di vita a quella conseguenti.

e) Per nazionalizzazione del settore edile deve intendersi che le abitazioni avranno un regime analogo a quello delle scuole, che sono un bene pubblico. Non si tratta, neppure in questo caso, di definire i particolari del futuro, ma di limitarsi ad alcune indicazioni, per esempio che non appare utile estendere la nazionalizzazione al patrimonio edilizio esistente (che col passare del tempo dovrebbe esaurirsi) limitandola invece alle nuove costruzioni. La nazionalizzazione delle case di nuova fabbricazione è, da una parte, una logica conseguenza della rivendicazione, ormai diffusa, che si esprime nella formula «casa come servizio sociale», e, dall’altra, è una condizione necessaria perché l’agganciamento del canone di fitto alla possibilità di pagamento dell’utente (e anche questa è una rivendicazione diffusa) non dia luogo alla creazione di ghetti rigidamente distinti a seconda dei livelli di reddito. Vi sono evidentemente una serie di problemi, da quello dell’assegnazione (che potrebbe avvenire attraverso simulazioni di mercato) a quello del finanziamento (che potrebbe ricadere sugli utenti o sulla società nel suo complesso), ma si tratta di questioni che troveranno soluzione soltanto nel corso della lotta per la casa e delle altre lotte, nella misura in cui quella e queste andranno avanti.

Ma se si vuole che chi non ha abitazione possa conquistarsela e chi la ha possa riappropriarsi di un uso «umano, cioè sociale» dell’abitazione, crediamo che la via da seguire sia quella, nella quale il cambiamento del modo di produzione, si accompagni al cambiamento della natura del prodotto.

(stralci tratti da Valentino Parlato, «Il blocco edilizio», il manifesto Rivista, n.3-4 del marzo-aprile 1970)

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