Nel settembre 2011, mentre la crisi finanziaria iniziata tre anni prima negli Stati Uniti continua a diffondersi su scala globale, un gruppo di manifestanti, ispirate/i dal movimento delle/degli Indignate/i in Spagna e dalla Primavera Araba, decide di occupare simbolicamente lo Zuccotti Park, nel quartiere di Wall Street, a New York. Insieme, protestano contro le disuguaglianze sociali ed economiche e gli abusi del mondo della finanza. Occupy Wall Street assume presto una dimensione internazionale.

In tutto il mondo si formano gruppi di manifestanti, dalla Francia al Brasile passando per Australia, Canada, Germania, Corea del Sud, Hong Kong e Nigeria. Le/i manifestanti provengono da ambienti differenti e si confrontano con realtà locali diverse, hanno in comune il rifiuto della corsa sfrenata al profitto, il cui obiettivo finale è la concentrazione della ricchezza nelle mani di una minoranza onnipotente che controlla l’accesso al capitale finanziario, mentre ampie fasce della popolazione mondiale lottano per la sopravvivenza in un ambiente sempre più degradato.

ALLORA, IL RIFIUTO dello status quo e il desiderio di rifondare il sistema economico erano molto concreti. Tuttavia, la concomitanza tra la grande crisi globale e questo movimento internazionale non ha portato a cambiamenti radicali nel decennio successivo. Il dogma della massimizzazione del valore a beneficio delle/dei sole/i azioniste/i, anche se indebolito, ha continuato a orientare le decisioni di imprese e investitrici/tori, spesso a scapito delle/dei loro dipendenti e dell’ambiente. Le disuguaglianze sono cresciute. Non sorprende che questa situazione di crisi sociale ed economica abbia cristallizzato il malcontento e incoraggiato, in numerosi Paesi, l’ascesa al potere di leader populisti, che hanno trasformato le/i rifugiate/i, le/gli immigrate/i e le minoranze nei capri espiatori di questa situazione.

IN QUESTO CONTESTO, la pandemia di Covid-19 che ha caratterizzato l’anno 2020 non è stata solo una tragedia umana, ma ha avuto anche un effetto rivelatore, rendendo le disuguaglianze ancora più visibili e spesso contribuendo ad acuirle (…). Le persone in situazioni precarie, comprese le minoranze razziali, le/i lavoratrici/tori dell’economia informale e le/i migranti, sono state/i particolarmente colpite/i ovunque nel mondo. Tra loro, le donne hanno spesso pagato un prezzo ancora più pesante (…). Mentre il virus mieteva centinaia di migliaia di vittime e sconvolgeva le nostre società, uno dei pochi ambiti in cui la situazione è migliorata in modo significativo è stato l’ambiente. Il periodo di lockdown ha dimostrato la possibilità di cambiare i comportamenti e quindi ridurre le emissioni di anidride carbonica, ma la crisi ambientale non è scomparsa, al contrario.

PER AFFRONTARE questa crisi globale e multidimensionale, che è allo stesso tempo economica, sociale, politica, ambientale e sanitaria, su che basi dobbiamo ripartire e come si deve costruire il mondo di domani? Ricominciare nello stesso modo sarebbe la ricetta per un fallimento assicurato. Il sistema capitalista neoliberista basato sulla sola ricerca del profitto non farà altro che aumentare la concentrazione di ricchezza, inasprire le disuguaglianze e distruggere sempre più il nostro ecosistema. Basta dare uno sguardo al passato per rendersene conto.

Se permettiamo a una minoranza di persone di accumulare sempre maggiore ricchezza, e con essa accrescere il potere nelle proprie mani, finirà inevitabilmente per abusarne a spese delle/degli altre/i. La concentrazione di potere è terreno fertile per la tirannia. Jean-Jacques Rousseau ci avvertiva del pericolo nel Contratto sociale: «Quanto alla ricchezza, che nessun cittadino sia tanto ricco da poterne comprare un altro, e nessuno tanto povero da essere costretto a vendersi». Se continuiamo a permettere che le disuguaglianze crescano, mettiamo in pericolo tutto il nostro sistema democratico, i diritti e le libertà che dovrebbero garantire tutte/i, non solo una minoranza di individui.

LA SFIDA È GRANDE: dobbiamo impegnarci nella costruzione di una società più democratica, più equa e più verde. Si tratta di un compito difficile perché implica la rottura con le strutture di potere esistenti e con le regole del sistema neoliberista (…). Lo studio dei cambiamenti sociali ci ha insegnato che c’è la necessità di uno sforzo collettivo che coinvolga sia le autorità pubbliche, le imprese, le associazioni e la comunità scientifica, sia tutte/i noi cittadine/i. È questa la forza dei movimenti collettivi: quando coloro che vogliono il cambiamento riescono a rimanere unite/i, possono rovesciare le gerarchie di potere esistenti e promuovere nuovi princìpi. Nelle mie ricerche, ho individuato tre ruoli necessari per il successo di tali sforzi collettivi: l’agitatrice/tore, l’innovatrice/tore e l’orchestratrice/tore. (…)

È STATA LA VOLONTÀ di contribuire al movimento collettivo per il cambiamento non solo come agitatrice, ma anche come innovatrice e orchestratrice a spingermi – insieme a Isabelle Ferreras, Dominique Méda e a un gruppo di docenti universitarie – a lanciare un’iniziativa internazionale per mobilitare il mondo accademico di tutti i continenti e di tutte le discipline. Vogliamo costruire ponti tra la ricerca e l’attività pratica per la riforma del sistema economico e sociale. Il mondo scientifico non ha tutte le risposte, ma è necessario scendere dalle nostre torri d’avorio per partecipare, con umiltà e determinazione, allo sforzo collettivo di ricostruzione.

 

L’evento alle 18 a Palazzo Wedekind

«Il Manifesto del lavoro» (a cura di Dominique Méda, Isabelle Ferreras, Julie Battilana, prefazione di Maurizio Landini, Castelvecchi, pp. 144, euro 15) sarà presentato oggi a Roma alle ore 18 (Palazzo Wedekind – Piazza Colonna, 366). All’evento partecipano il presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, Marina Calloni, Università Bicocca, Stefano Fassina, Leu, Maurizio Landini, Segretario Generale Cgil, Andrea Orlando, Ministro del Lavoro e Laura Pennacchi, economista e politica. Modera la giornalista Paola Severini Melograni.