Hanno dovuto bloccare un’autostrada, calare per la seconda volta in migliaia a Roma e per la terza volta scioperare per ottenere una convocazione a palazzo Chigi. La lotta dei 10 mila lavoratori rimasti all’ex Ilva per dare un futuro a loro stessi e uno (non inquinato) a Taranto, ieri ha ottenuto un primo risultato, tutt’altro che scontato.

La vertenza infinita dell’attuale Acciaierie d’Italia è però la dimostrazione di come il «sovranismo» del governo Meloni funzioni solo contro i più deboli – migranti, studenti operai – e mai contro le multinazionali come Arcelor Mittal che da tre anni – grazie alla tagliatrice di teste e aziende Lucia Morselli – sta uccidendo il più grande gruppo siderurgico in Italia.

Da un anno poi siamo alla follia: lo stato ha messo i soldi – 680 milioni a febbraio – ma non riesce a diventare azionista di maggioranza (come previsto dagli accordi pubblici, forse non dai patti parasociali segreti) e imporre la propria volontà ai franco-indiani. Commissariato l’inutile ministro Urso, Meloni ha dato la vertenza in mano al suo potente sottosegretario Mantovano che però ha da seguire fin troppi dossier , tanto che ieri mattina non era neanche presente.

Sostenere che Arcelor Mittal sia «un interlocutore credibile» non è buon viatico. Per sembrare credibile il governo – entro il prossimo incontro del 7 novembre – dovrà trovare un manager all’altezza che sostituisca il dimissionario presidente Bernabè, eredità di Mario Draghi. Quanto a politica industriale, infatti, la continuità (di assenza) fra i due governi è totale.