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I reclusi del residence degli Ulivi

I reclusi del residence degli UliviNel centro di "accoglienza" di Falerna

Calabria Per la Dia l’ndrangheta macina 500 milioni dall’accoglienza

Pubblicato circa 11 anni faEdizione del 4 ottobre 2013

Imprigionati, ma liberi di andare da nessuna parte, dimenticati dalle istituzioni, eppure sorvegliati a vista. Sono i duecento migranti dell’ex emergenza Nordafrica, in precedenza ospitati, oggi confinati, in un residence a Falerna, all’estremo nord del Tirreno catanzarese. Un’antica torre d’avvistamento, eretta più di mille anni fa a presidio del territorio flagellato da incursioni saracene, li osserva dall’alto. Stavolta i «mori» sono di passaggio. Molti di loro vorrebbero partire subito, ma non hanno via d’uscita: sono stati «congelati» qui, in mezzo a quest’uliveto bruciacchiato dal sole, in una situazione senza apparenti vie d’uscita.

Cipolle a 25 euro al giorno

Tra di loro, alcuni preferirebbero restare in Calabria, ma nella condizione in cui vivono, avrebbero vita corta. Da dicembre è scaduto il programma d’intervento umanitario che avrebbe dovuto garantire duratura ospitalità a migliaia di profughi libici e nessuno li vuole più. Non c’è ente disposto ad occuparsi di loro. I soldi della Protezione civile sono finiti. Ghanesi, somali, nigeriani, tra cui malati gravi, donne e bambini, vivono in un limbo legislativo, senza assistenza sanitaria. C’è chi ha ottenuto il permesso umanitario e chi ha in tasca una protezione sussidiaria. A breve, comunque, diventeranno «clandestini». Sarà una «clandestinità» scaglionata nel tempo: i rispettivi documenti presentano differenti scadenze. Una cosa è certa: non possono uscire dall’Italia né tornare nei Paesi d’origine. Quasi tutti vivevano in Libia o vi si trovavano a transitare durante la guerra civile. E sono stati costretti a scappare perché rischiavano di essere coinvolti nella caccia al nero scatenata dai ribelli contro le forze fedeli a Gheddafi, tra cui tanti mercenari dalla pelle scura. Lo spiega bene Mohammed: «Stavamo benissimo in Libia, prima che cominciassero gli scontri. Poi la situazione è cambiata da un giorno all’altro. Mio fratello è stato ucciso da una pallottola al collo. Ci hanno detto di andar via prima possibile. Così ci siamo imbarcati».

Non immaginavano cosa li aspettasse in Italia. «Ogni giorno – spiega Mukhtar – raggiungiamo Campora San Giovanni, a pochi chilometri da qui, e ci mettiamo sulla strada in attesa che qualcuno ci chiami per andare a lavorare. Raccogliamo cipolle per l’intera giornata a 25 euro, quando ce li danno. Veniamo presi a lavorare solo se i braccianti rumeni non sono disponibili». Nessuno di loro parla italiano. «Ce ne vorremmo andare dall’Italia – precisa Karim – ma è l’unico Paese in cui possiamo vivere, a causa del regolamento approvato a Dublino. È qui che ci hanno preso le impronte digitali, quindi solo qui possiamo stare. Abbiamo provato ad andare in Svizzera, ma ci hanno rispedito indietro». All’inizio in tanti avevano ricevuto un diniego dalla Commissione territoriale per il riconoscimento dello status di rifugiato. In seguito tutte le posizioni sono state sanate, ma solo per un anno, la durata del permesso per motivi umanitari.

È Checca D’Agostino, ricercatrice e attivista per la dignità dei migranti, a individuare le cause di questo paradosso: «Alla crescente capacità dei rifugiati di dar vita a spostamenti sempre più autonomi e organizzati, oggi corrisponde lo sviluppo di una governance globale multilivello, che insegue i profughi nelle loro diverse traiettorie di fuga, e li espone nei paesi di arrivo alle stesse logiche di svalorizzazione e gerarchizzazione nel mercato del lavoro a cui sottostanno tutti coloro i quali non si adattano all’ideal-tipo di migrante «temporaneo» e «altamente qualificato» previsto dall’attuale migration management”. Così molti profughi, dalla fine della cosiddetta emergenza nord Africa, dopo essere stati buttati in mezzo alla strada – aggiunge D’Agostino – sono tornati ad affollare le tante strutture fatiscenti sorte in questi anni nelle campagne del Mezzogiorno, per lavorare in nero come stagionali, assoggettati a forme di sfruttamento finanche più gravose rispetto alle altre categorie di migranti».

Protezione civile cercasi

Anche Karim è stato trattenuto per due anni in uno dei tanti Centri di Accoglienza per Richiedenti Asilo aperti in Calabria dalla Protezione Civile, ed è qui che aveva preso residenza. Ma oggi, sulla carta, questi centri non esistono più e non hanno valore giuridico. Ecco perché, senza casa e lavoro, migliaia di profughi non potranno rinnovare il permesso di soggiorno. A Cosenza, in seguito alla campagna lanciata dal Cpoa Rialzo, il Comune ha concesso la residenza a 40 di loro in precedenza alloggiati nei Cara limitrofi.

A Falerna, invece da quasi un anno 200 persone continuano a sperare che qualcosa si smuova. Uno degli appartamenti è attrezzato a Moschea. Due o tre «ospiti» lavorano nella manutenzione di strutture turistiche, con regolare contratto. Tutti gli altri vivono di espedienti. Se hanno ancora un tetto, lo si deve al fatto che non è stato ancora richiesto lo sgombero in quanto l’amministratore della società proprietaria, Vittorio Palermo, ha aperto una serie di contenziosi col Consorzio «Calabria accoglie» che ha gestito, oltre a quello di Falerna, anche i centri di Cetraro, Feroleto, Acri e Castiglione. È noto che lo Stato ha speso ogni giorno, tramite la Protezione civile, 46 euro a migrante. Per un giro complessivo di sette milioni di euro. Ai rifugiati è stata messa in tasca una banconota da 500 euro per toglierli di mezzo. Ma senza un permesso degno di questo nome, i profughi andavano in questura coi pullmini, ma poi tornavano a Falerna. Così, secondo la denuncia depositata presso la procura di Lamezia dalla proprietà del residence, l’immobile non è stato mai rilasciato. E nessuno s’è preoccupato di dare un’alternativa ai migranti.

Intanto Palermo ha nominato un consulente tecnico per quantificare i danni pari a 277mila euro più gli affitti non pagati. Qualche mese fa il giudice civile ha riconosciuto che l’immobile non è stato restituito al titolare, e ne ha ordinato il rilascio. Nell’esposto la proprietà del residence chiede alla magistratura il sequestro dei canoni non pagati da parte della Protezione civile. Che dovrà dare spiegazioni tanto sulla mancata stipula di una polizza assicurativa quanto sul fatto che nel sito del Viminale ancora non appare la rendicontazione di quanto è stato speso per l’emergenza Nordafrica.

L’accoglienza della ’ndrangheta

Se la Protezione civile, guidata dal capo dipartimento, Franco Gabrielli, latita, non è da meno il ministero degli Interni di Angelino Alfano. In tempi di «larghe intese» con i «diversamente berlusconiani» chiedere la chiusura di Cara ed ex Cara sarebbe come profanare dei santuari. Eppure, per il Viminale ce ne sarebbe materiale per procedere. Dai fascicoli della recente inchiesta Ammit, condotta dalle Dda di Firenze e Reggio, è emersa una regia occulta delle ’ndrine nella gestione dell’accoglienza.

Tra i beni sottoposti a sequestro c’è anche il 70% di una società cooperativa di recente costituita, iscritta presso la Camera di commercio catanzarese, avente come oggetto sociale «la gestione di centri di accoglienza per stranieri o persone bisognose». La coop avrebbe dovuto aprire nei prossimi mesi un albergo finalizzato ad accogliere i migranti, fruendo -si legge nella visura- «di finanziamenti, contributi e agevolazioni da parte dello Stato, della Regione, della UE e di ogni altro ente pubblico e privato». Il giro del malaffare, dicono i numeri dell’Antimafia, è impressionante. Ogni anno con lo sfruttamento dell’immigrazione irregolare e col business del traffico di esseri umani la ’ndrangheta macina proventi per oltre 500 milioni. A queste latitudini solo il malaffare non conosce frontiere.

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