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I profeti dell’agorà e il recupero della politica

La regressione culturale che «spoliticizza» i conflitti

Pubblicato più di 7 anni faEdizione del 30 luglio 2017

Per cogliere l’aria che tira, basta guardare dove si concentra oggi il conflitto: l’immigrazione, la sicurezza e i vitalizi. C’è da rabbrividire per questo scivolamento nel senso comune e per la demagogia imperante nelle élite politiche che dovrebbero governare una complessa democrazia europea.

La grande crisi globale del capitalismo sta evolvendo nel segno della regressione culturale, che è sempre l’anticamera inospitale della deriva delle mentalità diffuse verso destra.
Le antinomie del capitale restano spoliticizzate mentre ciò che si osa definire ancora sfera pubblica si dedica alla caccia contro il nero e alla lotta senza tregua contro il privilegio pensionistico del deputato. Abili depistaggi cognitivi trionfano nella inesauribile fabbrica delle falsificazioni che serve agli interessi dominanti per conservare lo status quo più putrido.
Vengono sfornati avariati prodotti dell’ideologia postmoderna per non guardare in faccia alle potenze del capitale che distruggono diritti, condannano generazioni all’oblio, si appropriano del potere politico come prolungamento dell’interesse aziendale.

LA VENA AUTODISTRUTTIVA del capitale induce a spoliticizzare i conflitti per sopravvivere ai collassi sistemici indotti dalla grammatica della mercificazione assoluta. E però, annichilendo la politica come postazione istituita in vista della generalità (dell’interesse di classe e della mediazione astratta aperta a bisogni plurali), si alimentano parabole neopatrimoniali con le quali i regimi politici rinunciano a disporre di momenti di governo, di sintesi, di forma.
Non ci sono però alternative, dopo la grande contrazione del 2007. O si ricostruiscono i margini di funzionamento del politico, come spazio della ricomposizione di una forma che filtra gli interessi eterogenei, oppure si accelera la caduta dei sistemi politici occidentali verso il pantano di regimi ibridi, un miscuglio di venature patrimoniali immediate e di torsioni autoritarie camuffate grazie alla sopravvivenza dei rituali elettorali.

LA TENDENZA attuale, che scorre nelle pieghe nemmeno troppo nascoste dello spirito oscuro del tempo è proprio questa: ingaggiare zuffe reazionarie sul colore della pelle dei nuovi venuti e dare addosso a ciò che resta della politica in nome della uccisione definitiva della casta.
Con queste mosse devianti, escogitate da un avversario privo di risorse culturali espansive al fine di scongiurare un salutare conflitto di classe con formazioni politiche chiamate a interpretarlo con grandi strategie e identità, il capitale ostacola la ricostruzione dell’autonomia della funzione politica.
E però, con questo suo apparente trionfo contro i fantasmi della eteronomia dei poteri pubblici, contro le tracce residuali della decisione, il capitale sancisce l’autocastrazione di un sistema sprovvisto di limiti, capacità di freno, di assorbimento, di imposizione di momenti di piano.

Sempre, quando si lotta contro fantasmi di comodo e si infilzano assurdi bersagli, cova la degenerazione ambientale su cui attecchisce la reazione politica. La Repubblica di Scalfari nei primi anni ’90 vinse la battaglia contro la nomenclatura. Abbattendo la partitocrazia, non suonò il piffero per Segni ma favorì il partito neopatrimoniale del cavaliere. Il Corriere di Mieli ha vinto la sua decennale battaglia contro la casta (lo sapeva bene Gramsci: nei momenti critici, i poteri forti per confondere le coscienze si scagliano con facilità contro «la cristallizzazione del personale dirigente che esercita il potere coercitivo e che a un certo punto diventa casta»).

CON LE MUNIZIONI della Rizzoli, non ha però spianato la strada a un partito neoaziendale dal volto umano (di Montezemolo o Della Valle) ma ha provocato il deserto della cultura politica con il trionfo di un non-partito a conduzione micropatrimoniale. Con gli scudieri della Casaleggio o dello statista di Rignano, che in parlamento urlano contro i costi della politica, si precipita nel punto zero della cultura politica.

I profeti dell’agorà ritrovata ignorano che fu Pericle a introdurre una indennità per la partecipazione politica. A spesa dell’erario funzionava la bella democrazia diretta degli antichi. Aristotele ricorda che era concesso un dramma per ogni cittadino che partecipasse all’assemblea ordinaria e 9 erano previste per prendere parte all’adunata straordinaria. Indennità, oboli, spese di vitto e alloggio, prerogative e immunità erano distribuite per i tribunali, gli arconti, per i membri del consiglio dei cinque, per i pritani, i magistrati. A dare voce all’antipolitica degli antichi fu Aristofane, a sorreggere il grido anticasta dei postmoderni provvede il redditizio lavoro antipolitico come professione che come una lima sottile distrugge le condizioni minime di una democrazia.
Deboli paiono le risposte civiche alla decisione del capitale di risolvere la crisi sociale con nuovi depistaggi in chiave di razzismo e antipolitica, cioè con ritrovati arcaici che evitano il discorso scomodo sulle diseguaglianze ma al costo di recidere il governo della politica.

QUANDO È IL CAPITALE stesso che gioca le sue carte contro la casta, contrappone il vecchio e il nuovo, il dentro e il fuori sistema c’è poco da riciclare con le stesse formule tinteggiate con colori più radicali. Si tratta di proposte comunque subalterne al senso comune occupato dalle simbologie dei signori dei media e del denaro.
Senza riscoprire le radici del conflitto non rinasce la politica. E il conflitto evoca il movimento di protesta, le esperienze di mobilitazione, il mondo della resistenza sindacale.
Se nel dopoguerra fu il partito nuovo a ricostruire il sindacato del conflitto, oggi è il sindacato che dovrebbe sporcarsi le mani per una complessa riprogettazione di un soggetto politico del lavoro che non ha le forze per nascere.
Tocca a Camusso o Landini restituire la cortesia antica che fu di Togliatti contribuendo all’invenzione del nuovo soggetto politico in grado di sfidare il capitale e le sue imposizioni di precarietà, de-democratizzazione, abbandono di ogni bene pubblico e comune.

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