Hanno destato scalpore le parole pronunciate dal ministro delle Finanze israeliano Bezalel Smotrich, il 19 marzo a Parigi, per commemorare Jacques Kupfer, un esponente della destra israeliana: «Non si può parlare di “palestinesi” perché non esiste un “popolo palestinese”», ha detto Smotrich mostrando una mappa del “grande Israele” che, oltre a cancellare ogni traccia della Palestina storica, includeva anche Giordania e Cisgiordania.

PER IRONIA DELLA SORTE Smotrich, nato nel 1980 ad Haspin (nelle alture del Golan occupate) e cresciuto a Beit El (un insediamento vicino a Ramallah costruito nel 1977), ha tenuto il suo discorso accanto a una foto del fondatore del sionismo revisionista Vladimir Jabotinsky, il quale proprio 100 anni fa (novembre 1923) pronunciò le seguenti parole a proposito del “popolo inventato”: «Non ci può essere alcun accordo volontario tra noi e gli arabi palestinesi, è assolutamente impossibile ottenere il consenso volontario degli arabi palestinesi per trasformare la “Palestina” dall’essere un paese arabo al diventare un paese a maggioranza ebraica. Tutte le popolazioni indigene, civilizzate o meno, hanno sempre resistito ostinatamente all’arrivo di coloni».

LE PAROLE DI JABOTINSKY ci ricordano che gli oltranzisti di un secolo fa non avevano alcun problema a riconoscere l’esistenza degli arabi palestinesi, né quella di ciò che essi chiamavano da molti secoli Palestina. Per converso, il ministro delle Finanze israeliano, proveniente da una famiglia in larga parte di origini ucraine (Smotryc è il nome di una cittadina dell’Ucraina occidentale), ha ritenuto opportuno “provare” l’invenzione del popolo palestinese giustapponendolo alla storia di uno dei suoi nonni: «Mio nonno – ha sottolineato -, tredicesima generazione della sua famiglia a Gerusalemme, era un vero palestinese».

Tredici generazioni corrispondono a circa 325 anni. Ciò significa che, stando all’albero genealogico fornito dallo stesso Smotrich, il suo antenato potrebbe aver incontrato il muftì Khayr al-Din al-Ramli, influente giurista nella Palestina ottomana del XVII secolo, nato e morto nella città da cui trae origine il suo cognome (appunto Ramla). Si sarà forse imbattuto anche in uno dei suoi testi (gli ebrei palestinesi parlavano l’arabo), constatando che il concetto di «Filastīn», da lui indicata come bilādunā («il nostro paese», inteso in senso sociale), fosse molto più di un’idea astratta.

Si trattava di un sentire comune peraltro confermato anche da quello che è considerato uno dei più noti classici della storia gerosolimitana del Medioevo: al-Uns al-Jalil bi-tarikh al-Quds wa’l-Khalil («La gloriosa storia di Gerusalemme e Hebron»). Nelle pagine del manoscritto, composto intorno al 1495, il suo autore, il qadi di Gerusalemme Mujir al-Din al-‘Ulaymi, fece un uso sistematico (22 citazioni) del termine Filastīn, alternato sovente con Al ‘Ar al Muqaddasa  («Terra Santa»). L’indicazione «Siria meridionale», per contro, non fu mai menzionata.

UNA CONFERMA di tale specificità era peraltro riscontrabile, con riferimenti geografici ancora più circoscritti, in un numero cospicuo di fonti prodotte nel corso di un vasto lasso temporale. Un testo dell’VIII secolo attribuito allo studioso Thawr Ibn Yazid, argomentava che «il luogo più sacro della terra è la Siria; il luogo più sacro (al-quds) in Siria è la Palestina; il luogo più sacro in Palestina è Gerusalemme».

Cenni circostanziati alla Palestina, non necessariamente di carattere religioso, li ritroviamo nel Kitāb al-Buldān («Il libro dei Paesi») dello storico Al-Ya‘qubi (m. 897) e nel Kitāb al-masālik wa al-mamālik («Libro delle vie e dei regni») del geografo persiano al-Istakhri (m. 957): «Filastin – scrisse al-Istakhri – al massimo della sua lunghezza va da Rafah fino al confine di Al Lajjûn (Legio), a un viaggiatore occorrerebbero due giorni per transitarla; e questo è il tempo veromilmente necessario per attraversare la provincia nella sua larghezza da Yâfâ (Giaffa) a Rîhâ (Gerico)».

MA CHI VIVEVA SU QUESTA TERRA insieme al nonno di Smotrich? Per affidarsi a dati circostanziati è necessario fare un salto nel tempo. Un primo censimento ufficiale venne effettuato in Palestina solo nel 1922, dal governo mandatario britannico. In quell’occasione venne rilevata una popolazione totale di 757.182 individui, di cui 590.390 musulmani, 83.694 ebrei, 73,024 cristiani.

Le stime più attendibili riguardanti il secolo precedente rilevano che nel 1800 la popolazione totale della Palestina contasse 250.000 individui, per poi raggiungere quota 500.000 nel 1890. Justin A. McCarthy, uno dei massimi demografi attivi su questo tema, ha indicato in 411.000 il numero dei residenti in Palestina nel 1860, la stragrande maggioranza dei quali (circa il 90%) arabi.

IN UN’OTTICA EUROCENTRICA tali cifre potrebbero apparire irrisorie. Per rendere l’idea basti pensare che quando Parigi nel 1846 toccò quota un milione di abitanti, Gerusalemme e Haifa ne contavano rispettivamente poco più di 18mila e poco meno di 3mila. Sarebbe tuttavia scorretto scegliere i paesi europei e non quelli della regione quali termini per una comparazione attendibile.

In questo senso è più sensato confrontare l’Egitto di inizio Ottocento con la Palestina dello stesso periodo. Il primo si stima avesse ai tempi una popolazione di circa tre milioni di abitanti: ogni ne conta 90 milioni. La seconda, abitata ai tempi da 250.000/300.000 persone (quindi 225.000/270.000 arabi), registra oggi poco più di sei milioni di individui.

Questi dati mostrano un sostanziale accordo tra la Palestina e quello che storicamente è il più importante nonché il più popoloso tra i paesi arabi.

Pur essendo presenti importanti minoranze, in particolare cristiane (la minoranza più numerosa), sciite e druse, la maggioranza (l’85%) di quei circa 300.000 arabi che vivevano in Palestina a metà del XIX secolo erano musulmani sunniti. Utilizzavano come moneta la lira ottomana, parlavano l’arabo e vivevano in una società gerarchizzata.
La maggior parte degli abitanti locali viveva sparsa tra circa settecento piccoli villaggi. Tali individui, i quali, come notò la moglie del console britannico a Gerusalemme Elizabeth Finn, mostravano di essere legati alla loro terra «con la tenacia degli abitanti aborigeni», erano dislocati per lo più nelle zone collinari e montagnose (jebel) che si snodano da Nord a Sud tra la Galilea e Jabal al-Khalil (Hebron).

IL RESTO DELLA POPOLAZIONE risiedeva in città a popolazione mista – dove risiedeva anche la maggioranza degli ebrei palestinesi – come Gerusalemme, Haifa, Tiberiade, Jaffa e Safad. Oppure in città esclusivamente arabe come Nazareth, Shefar’am, Nablus, Jaffa, Beisan, Lydda, Ramla, Ramallah, Beersheba, Beit Jala, Jenin e Khan Yunis, Gaza, Betlemme, San Giovanni d’Acri, Tulkarem.

Umanizzare e rendere visibile il vissuto e le cicatrici di questi esseri umani, dunque tanto degli arabi palestinesi quanto degli ebrei palestinesi, è ancora oggi il miglior antidoto ai tanti Smotrich del nostro tempo.