I nove capitani di Pylos
Grecia Un anno fa la strage a largo del Peloponneso: un peschereccio con oltre 700 persone a bordo si ribaltò, si contarono solo 104 sopravvissuti. Alcuni di loro sono accusati di essere scafisti
Grecia Un anno fa la strage a largo del Peloponneso: un peschereccio con oltre 700 persone a bordo si ribaltò, si contarono solo 104 sopravvissuti. Alcuni di loro sono accusati di essere scafisti
Una parola ricorre, negli uffici zeppi di carte degli avvocati, per descrivere il processo che inizia oggi nella città di Kalamata contro nove superstiti del naufragio di Pylos, accusati di avere agito come scafisti: «farsa». «Lo Stato greco ha deciso che doveva coprire a tutti i costi le proprie responsabilità, ha scelto nove persone nel mucchio, le ha accusate con zero prove e le ha sbattute in prigione», spiega Dimitris Choulis, avvocato della squadra legale che assiste i superstiti.
ERA IL 14 GIUGNO dell’anno scorso quando un peschereccio sovraccarico con circa 700 persone a bordo – soprattutto siriane e egiziane – si è ribaltato 47 miglia nautiche a sud di Pylos, a largo del Peloponneso. Solo 104 persone sono sopravvissute e il mare ha restituito 82 corpi. Tutti gli altri, comprese le donne e i bambini ammassati nella stiva, risultano ancora oggi semplicemente «dispersi», ma sono bastate poche ore dal naufragio per rendere chiaro che quella di Pylos è una delle peggiori tragedie recenti del Mediterraneo.
A DETTA di decine di sopravvissuti, il peschereccio si è ribaltato dopo il tentativo di una motovedetta della Guardia costiera greca di trainare l’imbarcazione con una corda verso l’area di soccorso di competenza italiana. Secondo le autorità, invece, il ribaltamento sarebbe avvenuto perché il peschereccio era sovraccarico, quando la motovedetta si trovava a distanza. Da quella notte sono passati undici mesi: le indagini sulle responsabilità della Guardia costiera, di competenza del Tribunale navale del Pireo, sono ancora allo stadio iniziale mentre sono bastate 24 ore dal naufragio per individuare i ‘nove scafisti’ della traversata. Sono tutti di nazionalità egiziana, il più giovane ha 21 anni: l’accusa contro di loro è quella di traffico di esseri umani, di aver causato un naufragio e di organizzazione criminale.
LE PENE COMPLESSIVE ammontano a 174 ergastoli. Tanti gli aspetti controversi dell’accusa, che si basa sulla deposizione di altri nove superstiti. «Parliamo di persone recuperate dal mare solo con la biancheria addosso e interrogate dalle sei di pomeriggio alle tre di notte, in alcuni casi senza un interprete che parlasse la loro lingua» spiega l’avvocata Efi Doussi. Alcuni di loro hanno raccontato alla Bbc di essere stati costretti dalla Guardia costiera a accusare gli altri compagni di viaggio. Gli avvocati vorrebbero portare quei superstiti a testimoniare a Kalamata, ma difficilmente ci riusciranno.
IN BASE A QUANTO apprende il manifesto, gli autori della deposizione che potrebbe essere decisiva si trovano in Germania dove cercano di ricostruire una vita lontano dal trauma di Pylos. Le deposizioni che inchioderebbero gli egiziani, stando a quanto trapela, non li definiscono «scafisti» né menzionano che abbiano ricevuto denaro per la traversata, ma li indicano come quelli che hanno «distribuito dell’acqua» o cercato di riparare i danni al motore. «Tanto basta per incriminare chi cerca protezione in Europa – spiega Choulis – La loro storia non è un’eccezione: è condivisa da altre duemila persone rinchiuse nelle prigioni greche».
I migranti accusati di traffico di esseri umani rappresentano la seconda popolazione carceraria del paese, appena inferiore al numero di chi è stato incriminato per reati di droga. Gli egiziani non sarebbero altro che il «capro espiatorio» ideale per coprire le responsabilità greche, secondo l’équipe legale: «Invece di impiegare una nave di soccorso, hanno messo in mare una motovedetta che non aveva neanche i giubbotti salvagente. L’obiettivo era respingere i migranti, non salvarli: per questo avevano spento le telecamere a bordo. E quando il peschereccio si è ribaltato, l’equipaggio è rimasto a guardare la gente morire, per un periodo che varia, a seconda delle testimonianze, da mezz’ora a due ore», sostiene Choulis.
In aula, gli avvocati chiederanno che venga preso in considerazione tutto il materiale finora ignorato nelle indagini: le testimonianze degli altri sopravvissuti, le trascrizioni della Guardia costiera, e la restituzione dei ventuno cellulari sequestrati a alcuni migranti subito dopo la tragedia. Non sono mai stati riconsegnati, con la motivazione che l’acqua li ha resi inservibili. Gli attivisti della campagna nata per chiedere l’assoluzione degli egiziani, «Free Pylos 9», hanno indetto una manifestazione di solidarietà fuori dalla corte di Kalamata.
NELLA CITTÀ COSTIERA accorreranno i parenti degli accusati: tra loro c’è Abdul, magazziniere nella periferia di Milano, il cui nipote è da un anno detenuto in carcere. Mostra la foto del certificato di laurea del nipote, Mohamed, che ha studiato legge in Egitto prima di cercare di raggiungere l’Italia. «La sua famiglia si è indebitata per pagargli il viaggio – spiega – Se fosse stato un trafficante si sarebbe messo a bordo di quella nave, rischiando di morire?».
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