Dopo ottant’anni la corrente l’avrà pure trascinata a valle; oppure l’avrà cavata qualche renaiolo, di quelli ritratti da Pointeau; oppure ancora il fiume se la sarà trascinata dietro nel ’66, durante l’alluvione, e qualche angelo del fango lo terrà in soffitta, quel cimelio inconsapevole. Ma è possibile che ci sia sempre, incagliata in fondo all’Arno, verso est, dove Firenze ancora oggi si interrompe e diventa campagna all’improvviso, una vecchia patacca arrugginita a forma di medaglia, che era stata gialla, ma non d’oro. Ce la lanciò Bartali, da poco tornato trionfatore dal Tour del ’38.

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Eroe nazionale, il Duce non poteva non tributargli un qualche onore, come del resto aveva fatto con la nazionale di calcio il mese precedente, anche quella vittoriosa al mondiale di Francia. Ma quel cattolico osservante e schivo alle parate di regime, che mai in pubblico (figuriamoci in privato) era stato visto salutare romanamente, a Mussolini non piaceva: troppo difficile addomesticarlo alla propaganda.

E quindi cerimonia riservata a Palazzo Venezia, e medaglia consegnata in fretta e furia. Una volta verificato che neppure si trattava d’oro, Bartali la consegnò al fiume.

Mussolini non lo seppe mai. Come non seppe mai il motivo per cui, tra il ’43 e il ’44, Bartali scelse spesso Assisi come meta per i suoi allenamenti in bici. Lì lo attendeva padre Ruffino Niccacci, e a lui il campione consegnava foto e documenti nascosti nel sellino, che poi sarebbero diventati carte d’identità per l’espatrio di ebrei e perseguitati politici nella tipografia dei Brizi, comunisti.

Non lo seppe Mussolini, e per fortuna non lo seppero neppure i suoi gerarchi.

In particolare Mario Carità, il brutale capo dell’Ufficio Polizia Investigativa con base nella Villa Triste di via Bolognese. Lì vennero seviziati, prima di essere uccisi in un bosco di Cercina, i martiri di Radio Cora Anna Maria Enriques Agnoletti, Italo Piccagli e Enrico Bocci, esponenti del Partito d’Azione fiorentino.

Accanto a loro caddero fucilati un partigiano cecoslovacco e tre soldati alleati, paracadutati a dar manforte per i programmi della radio clandestina di piazza D’Azeglio.

Dal secondo piano di Villa Triste cercò la fuga Bruno Fanciullacci, gappista comunista fiorentino, acciuffato dalla banda Carità dopo aver giustiziato Giovanni Gentile. La caduta gli fu fatale, e oggi il piccolo piazzale antistante il condominio di via Bolognese è Largo Fanciullacci.

A villa Triste fu convocato anche Bartali, perché il maggiore Carità era in possesso di una lettera in cui dal Vaticano si ringraziava Gino «per il suo aiuto». Di quale «aiuto» si trattasse Bartali non lo rivelò, né a Carità, né a nessun altro, «perché il bene si fa, ma non si dice».

Bartali il buono, Bartali il pio. Ma anche Bartali, se non il vanitoso, l’orgoglioso. Benché all’epoca il diaframma tra l’eroe e il popolano fosse sottile, e nel tempo libero lo si potesse incontrare non a Ibiza, ma a giocare a carte e bere vino all’osteria, pur sempre dell’idolo incontrastato di un’epoca intera si trattava.

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Tre giri d’Italia, quattro Milano–San Remo, tre giri di Lombardia, due Tour de France, con il record di dieci anni trascorsi tra il primo e l’ultimo trionfo (1938-1948).

Più il Tour del ’37 già in tasca e perso per una caduta – il complimento più bello glielo fece dopo quella sconfitta Roger Lapébie: «Ho vinto il Tour di Bartali».

Più il Tour del ’39 che avrebbe stravinto, ma che non corse per i capricci autarchici del regime.

Più tutte le vittorie che gli impedì lo scoppio della guerra.

E quindi a Coppi non perdonò mai, più che le batoste che gli inflisse nel dopoguerra, l’insubordinazione all’Abetone nel Giro del ’40, quando l’Airone prese il volo verso Modena incurante del femore incrinato di quello che era allora il suo capitano.

E quindi ancora, al Tour del ’50, impose il ritiro a tutta la squadra nazionale con Fiorenzo Magni, il leone delle Fiandre, in maglia gialla e già destinato alla vittoria. Perché i francesi incazzati ed eccitati dalla campagna stampa contro i macaronì lo minacciavano, con tanto di Citroen nera che parve andargli addosso sulle rampe dell’Aspin, la versione di Gino. Perché non ce l’avrebbe fatta comunque, e quindi a casa Sansone e tutti i filistei, ha sempre pensato Fiorenzo (repubblichino a Salò, nell’immediato dopoguerra Magni se l’era vista brutta, e pare se la sia cavata per i buoni uffici di Alfredo Martini, che invece da Sesto Fiorentino aveva preso la via dei monti coi ribelli).

E quindi Bartali il testardo, che non accettava il rientro nella dimensione degli umani: per convincere Brera che lo attaccava un giorno sì e l’altro pure perché non si arrendeva all’evidenza dell’età – va a casa, coglione, avessi io i tuoi quattrini… – gli fumò sul grugno quattro Gauloises senza filtro una dietro l’altra, laddove oggi si esibirebbero cardiofrequenzimetri e wattaggi.

Nella memoria popolare c’è poi il Bartali salvatore della Patria, per quel trionfo al Tour del ’48 che distrasse per una settimana gli animi degli italiani surriscaldati dall’attentato a Togliatti.

Negli archivi non c’è traccia di questo ruolo di pacificatore. Ma di certo c’è che il giorno prima di arrivare a Gap gli passarono il telefono in albergo, e all’altro capo della cornetta c’era De Gasperi, il quale, più sommessamente del Duce che dieci anni prima aveva imposto il Vincere!, si limitò a chiedere se fosse stato possibile far qualcosa.

Pare sia mitologia anche la coloritura politica della rivalità con Coppi – entrambi nel ’48 firmarono un appello a favore della concordia nazionale ispirato dal santo padre; ma Vasco Pratolini, inviato d’eccezione al Giro dell’anno precedente, notava come il passaggio dall’Emilia rossa al Veneto bianco si contraddistinguesse per i maggiori applausi al passaggio di Bartali e dell’auto dei giornalisti del Popolo, l’organo della Dc.

Per Pratolini il Giro era un circo Barnum, e Bartali il suo Buffalo Bill. Oggi ci siamo attendati tutti qui per salutarlo.