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I fenomeni irreversibili della catastrofe climatica

foto di Nicolas Armer/Ap

Crisi climatica Le prime vittime saranno agricoltura e alimentazione, prime fonti di emissioni. Mangiare diventerà un problema per un numero crescente di esseri umani

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 23 luglio 2022

Stiamo assistendo alla fine del mondo. Non del pianeta Terra, ma del mondo inteso come condizione di vivibilità degli esseri umani, del numero dei suoi esemplari, del loro modo di vivere, plasmato dalla modernità ed esteso a tutti (il capitalismo del XXI secolo).
Tutte le manifestazioni di questa fine del mondo sono già in gran parte presenti: ghiacciai e calotte polari che si sciolgono, siccità e desertificazione, alluvioni che ne aggravano gli effetti, mare che si infiltra nelle falde, prosciugamento degli acquiferi, incendi che distruggono le foreste, tifoni e malattie nuove che non si riesce più a controllare. Sono tutti fenomeni in gran parte irreversibili.

I ghiacci continueranno a sciogliersi e non si riformeranno per migliaia di anni anche se le emissioni cessassero domani (il che non è). Gli acquiferi non si riempiranno più, i fiumi alterneranno secche e piene che si trasformano in alluvioni. Le estati saranno sempre più torride, rendendo invivibili aree sempre più estese del pianeta. Gli inverni saranno sempre più avari di normali precipitazioni, gli incendi sempre più estesi e violenti. La situazione odierna peggiorerà, con alti e bassi, di anno in anno, spingendo un numero crescente di abitanti della Terra ad abbandonare i loro paesi.

Le prime vittime saranno agricoltura e alimentazione, già oggi principale fonte di emissioni (in gran parte per la produzione di carni). Mangiare sarà sempre di più un problema per un numero crescente esseri umani. Ma l’industria non se la vedrà meglio. Sia l’energia nucleare che quella di origine fossile hanno bisogno di acqua, molta acqua. E ce ne è sempre meno a disposizione.
Si fermano in Francia molte centrali nucleari perché non c’è più acqua per raffreddarle. Si fermeranno in Italia e altrove molte centrali a gas e carbone per la secca dei fiumi. Senza elettricità si ferma anche l’industria. Non parliamo della conversione dalla combustione all’elettrico del parco veicoli: 1.300.000.000 auto. Da dove verranno l’energia per muoverlo, i materiali per farlo funzionare e fabbricarlo se l’industria lavorerà a singhiozzo?

E il turismo? Che senso ha fabbricare l’inverno con la neve artificiale per produrre uno scempio come le Olimpiadi Milano-Cortina? Quando viaggiare verso terre lontane non garantisce più un sicuro ritorno? E l’industria militare, anche se le armi sono oggi il più grande affare. E le Grandi opere? Di tutti i cantieri aperti con il Pnrr non resteranno che debiti da saldare. A spese di chi? Tutto ciò provocherà chiusure, licenziamenti, perdita di reddito, senza prospettive alternative per l’occupazione e la produzione.

C’è qualcuno dei politici affaccendatisi sul destino del governo Draghi, a partire dal titolare, che abbia nominato uno solo di questi problemi mentre l’Italia andava a fuoco? O qualche imprenditore? O qualche apertura a sei colonne di un giornale? Mai il “servo encomio” di Draghi e il “codardo oltraggio” del buon senso erano caduti così in basso: un teatro dell’assurdo. Eppure, è di questo che bisognava parlare.

Se ne parlassimo le cose prenderebbero un’altra piega: non si metterebbero più ambiente e clima in coda ai 9 punti su cui impegnare il governo o la campagna elettorale. Si metterebbe finalmente in chiaro che per raggiungere quegli obiettivi occorre affrontare di petto il problema del clima. E come? Ciascun territorio, ciascuna nazione, ciascun continente dovrebbe sforzarsi di contribuire alla conversione ecologica. Ma c’è da trovare la strada per farlo, che non è per nulla chiara come lo sono invece gli obiettivi da perseguire; e che è diversa da paese a paese, da individuo a individuo, da impresa a impresa.

L’obiettivo di +1,5°C non sarà raggiunto: occorre prepararsi al meno peggio. E il meno peggio si chiama adattamento. Salvare, fin che si è in tempo, quello che è salvabile e lasciare indietro quello di cui c’è meno bisogno. Cominciando con agricoltura e alimentazione biologiche, multiculturali, di prossimità, senza allevamenti intensivi. Con la cura del territorio, rimboschendolo. Con la mobilità, abbandonando per sempre l’idea di avere a disposizione “un cavallo meccanico” a testa; la mobilità sostenibile è condivisione dei mezzi. E il turismo, la più grande industria del mondo deve tornare ad essere villeggiatura di prossimità o avventura senza confort. Anche l’industria dovrà ridimensionarsi e con essa sia l’aggressione alle risorse della Terra per alimentarla che la moltiplicazione dei servizi per trovarle uno sbocco nei nostri consumi. La scuola deve diventare un centro di formazione alla convivenza e alla conversione ecologica aperto a tutti e la cura della salute deve spostare il suo asse dalla terapia alla prevenzione.

In una prospettiva del genere, ci sarà posto per tutti su quel che resterà della Terra, sia per abitarla che per garantire a ciascun un ruolo, un’attività, un modo di rendersi utile senza piegarsi al feticcio dell’occupazione, che riguarda sempre e solo una parte della popolazione. Ma chi ha il coraggio di mettersi su questa strada?

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