Editoriale

I destini delle forze di opposizione

I destini delle forze di opposizioneUn'opera di Renato Mambor

Sinistre Riscoprire e rilanciare il “bene comune”, dovrebbe diventare il simbolo di una strategia, attenta a non cristallizzarsi sulla lunga opposizione che verrà, ma già in grado di prefigurare un diverso modello sociale alternativo alle destre e a un riformismo di necessità

Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 9 ottobre 2022

Se qualcuno si aspettava un cambio di marcia del Pd, sarà rimasto deluso dal dibattito della sua direzione. E ancora di più chi ne chiedeva – su giornali, tv e sui social – lo scioglimento come panacea dei suoi mali (d’altra parte il 19 per cento è pur sempre un bottino elettorale).

Ma a Letta e al gruppo dirigente spetta comunque un compito che va oltre le dichiarazioni di intenti ( “faremo una opposizione dura”, “non consociativa”, “saremo intransigenti” ), oltre le pur doverose autocritiche (“siamo apparsi come un partito interessato solo a coloro che ce la fanno” e “abbiamo fallito nella rappresentanza femminile”).

In sostanza un partito borghese e maschilista, non proprio trascurabili dettagli.

Certamente tutto è destinato a poggiare sulla sabbia se non verrà chiarita qual è l’identità di un partito che intende rappresentare una larga, consistente parte del Paese, e, soprattutto di quale parte vuole farsi interprete.

Una questione che peraltro non riguarda soltanto il Pd ma, sui punti dolenti della credibilità e del consenso, tutte le varie forze alla sua sinistra, principalmente gli alleati di Si e Verdi.

C’è in primo luogo una domanda alla quale tutti siamo chiamati a rispondere: perché le forze democratiche, progressiste e di sinistra, che sono maggioranza in Italia, non sono in grado di esprimere questa potenzialità a livello organizzativo-politico?

E qual è l’obiettivo di un area ampia e variegata, che non sia soprattutto – se non unicamente – la conquista di più seggi elettorali?

E soprattutto, visti i cambiamenti strutturali, economico-sociali dell’ultimo ventennio, a quali categorie di cittadini ci si rivolge visto che il vecchio, tradizionale zoccolo duro dei lavoratori, quelli delle fabbriche, dei cantieri, della terra, è profondamente mutato, scomparso nelle forme conosciute, mentre resta tuttora saldo il mondo dei dipendenti pubblici, dei pensionati? Si punta sul sicuro, cioè a rappresentare i cittadini privilegiati, garantiti, emancipati culturalmente?

Oggi la discussione rischia di ruotare solo intorno ai problemi del Pd,  alle sue lotte interne, alle sue contraddittorie autocritiche, alla figura del segretario (o della segretaria) che verrà.

Sicuramente la riflessione interna deve far parte di un confronto pubblico a tutto campo. E’ necessario interrogarsi sulle occasioni mancate, ad esempio sul perché sui diritti civili – ius soli, ddl Zan, eutanasia – il Pd si sia mosso oscillando tra avanzamenti e brusche frenate, retaggio della componente cattolico-clericale.

D’altronde lo stesso marchio d’origine è segnato dall’unione tra ex comunisti ed ex cattolici, che seppure ispirato dalle migliori intenzioni e da un’iniziale spinta propulsiva, poi, strada facendo, ha perso gli aspetti positivi della “unità nella diversità”, riportando a galla le originarie divisioni politico/culturali, degenerate nel peggior correntismo in stile democristiano.

Tuttavia il vero baco politico si chiama “governismo”, come ormai riconoscono in tanti e da vari punti di vista.

Non perché governare sia di per sé un richiamo diabolico (c’è anche chi ritiene che la sinistra dovrebbe collocarsi sempre all’opposizione), ma perché amministrare il bene pubblico – annullando qualsiasi interesse privato, personale e partitico – dovrebbe essere la mission di una risolta cultura di sinistra.

Dopo gli anni Settanta del secolo scorso, segnati dalla conquista delle Regioni e delle città “rosse”, si è fatta strada, lentamente, un’altra visione: dal governo al governismo, con il doppiopetto della spartizione del potere.

Non a caso, a sinistra, in modo distinto e distante dal Partito democratico, ha preso vita e forza, nei tempi più recenti, la ricerca teorica (ispirata da Stefano Rodotà) e politica (praticata dalle lotte dei movimenti), del “bene comune”, una fertile vena purtroppo dimenticata negli ultimi anni.

E’, dovrebbe essere, questo uno degli obiettivi del cambiamento: il rilancio del “bene comune”. Le forze politiche progressiste dovrebbero spingere per un rinnovato impegno su questo fronte, cercando le parole e le forme concrete per inverarlo nelle pratiche politiche.

Di più: riscoprire e rilanciare il “bene comune”, dovrebbe diventare il simbolo di una strategia, attenta a non cristallizzarsi sulla lunga opposizione che verrà, ma già in grado di prefigurare un diverso modello sociale alternativo alle destre e a un riformismo di necessità.

Intendiamoci, “bene comune” non è soltanto la cosa pubblica: è il lavoro, dignitoso, garantito, sicuro e soprattutto equamente pagato (come giustamente rivendicato ieri in piazza anche dalla grande, importante manifestazione della Cgil); è il diritto di scegliere come vivere e come morire senza andare all’estero; è l’ambiente, da difendere e valorizzare in tutti i luoghi e in ogni momento dell’esistenza; è la capacità di convivere tra diversi, accogliendo chi viene nel nostro Paese con la sostanza di un lavoro e di una piena cittadinanza; è il diritto ad una assistenza sanitaria di qualità, efficace, rapida, che non costringa a ricorrere all’intramoenia (la misura più iniqua perché destinata a chi non ha problemi economici, introdotta dalla sinistra); è il diritto di vivere in città e comunità sicure, preoccupandosi dell’emarginazione giovanile che alimenta la paura di cui profittano le destre; è la pace tutta da costruire nello sconvolgimento bellico dei nuovi assetti delle grandi potenze.

Si dice spesso che sono più le cose che uniscono il nostro campo di quel che le divide. Ma allora bisogna chiedersi quali sono le forze politiche in grado di partecipare ad un radicale e profondo progetto di cambiamento che non si fermi alla opposizione intransigente.

In parte sono a sinistra del Pd, il Pd stesso, i radicali. E i 5Stelle sui quali è importante chiarirsi.

Forse è azzeccata la sintesi di Domenico De Masi: il Pd si dice di sinistra senza esserlo, i 5Stelle sono di sinistra senza dirlo. Certo è che dopo il formidabile ridimensionamento elettorale, rispetto al 2018, quel che rimane del M5S, anche per l‘auto narrazione che ne fa il leader Conte, si sta collocando nel mondo della sinistra.

Identità fragile, che non va guardata con il sopracciglio alzato, ma che ha invece bisogno di essere sollecitata, salvaguardata da una deriva verso un peronismo di sinistra. E il modo migliore per farlo è trovare un’alleanza stabile e duratura nelle prossime elezioni locali (rimediando al catastrofico errore che ha regalato l’Italia alla resistibile ascesa della destra).

Naturalmente noi, e parlo del manifesto, non abbiamo una ricetta, una soluzione, un programma. Tanto meno ci interessano le faide interne ai partiti. Abbiamo soprattutto un desiderio, non tanto o non solo per chi ha una certa età, ma per i più giovani: vivere in un Paese meno disuguale, meno retrivo e illiberale di quel che è e sarà con la destra al governo.

La premessa anche solo per provare a realizzarlo, è impegnarsi insieme per un confronto ampio, profondo, senza steccati.

Oltrepassando i confini delle forze politiche, per abbracciare l’incredibile mosaico di associazioni e strutture che coinvolgono migliaia e migliaia di donne, uomini, giovani, anziani, che credono in quello che fanno, contro il rancore e la solitudine.

La loro è la nuova militanza, che non chiede di essere ascoltata, tanto meno paternalisticamente cooptata, ma di essere protagonista del rinnovamento.

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