Dopo dieci ore di riunione della direzione, le certezze in casa Pd non sono molte. Una di queste è che le primarie saranno a marzo, che Letta resterà al suo posto fino alla scelta del successore e che, salvo sorprese, fino a quella data non ci saranno altre scissioni. La sinistra dem, che ancora non ha un candidato da contrapporre a Stefano Bonaccini, parteciperà a tutto il percorso. «Non ci saranno cose rosse, o rossogialle», ha assicurato Goffredo Bettini, il dirigente più vicino a Conte .

TRA LE POCHE CERTEZZE, c’è anche che nessuno vuole sciogliersi (come suggerito da Rosy Bindi) e che il Pd non cambierà il nome e il simbolo che Letta ha detto di amare, anche per quel riferimento al tricolore che significa «servizio al paese». Tutti concordi anche nella necessità di una opposizione «intransigente» da far partire subito. «Togliamoci il doppiopetto, stare all’opposizione ci farà bene», ha assicurato Letta. Per tutte le altre questioni, e cioè quali classi sociali rappresentare, con quali parole d’ordine, la discussione resta in alto mare. Con una divisione ancora profonda tra chi r ancorato al Pd interclassista e veltroniano del Lingotto del 2007 (come la vicesegretaria uscente Irene Tinagli, Alessadro Alfieri e altri libdem) e chi invece vuole dare al partito un profilo laburista. Come Andrea Orlando che ha parlato di «ambiguità congenita» del Pd su temi chiave come «la valutazione dell’attuale fase di sviluppo capitalistico». Nel mirino le scelte mancate sul rapporto tra lavoro e impresa, economia e finanza. Orlando racconta un conflitto irrisolto tra un partito «neoliberale» e uno socialista. «Dobbiamo decidere da che parte stiamo nel conflitto sociale, altrimenti rischiamo di finire nella tenaglia tra un partito delle elite (Calenda) e uno socialpopulista (Conte). «Neppure i socialisti francesi avevano deciso di sciogliersi, eppure sono finiti ai margini», avverte Orlando. A sorpresa Delrio è d’accordo: «Siamo o non siamo un partito che mette il lavoro davanti alla finanza? Serve una svolta culturale». «Non voglio regalare il patrimonio ideale della sinistra a Conte», si fa sentire Peppe Provenzano. «Oggi non c’è un gruppo sociale che affida a noi la sua rappresentanza, senza identità chiara sui temi del lavoro siamo solo un comitato elettorale». «Il problema principale», insiste Provenzano, «è stato stare anni al governo senza aver vinto le elezioni». Su questo era stato chiaro anche Letta: «Se il governo cadrà chiederemo le elezioni, mai più esecutivi di salvezza nazionale».

SUL PALCO SFILANO TANTI BIG che c’erano già nel 2007, quando il Pd è nato, da Fassino a Zanda a Cuperlo e Delrio. «In questi anni sono cambiati tanti segretari, ma il gruppo dirigente è sempre lo stesso», avverte il sindaco di Bologna Matteo Lepore. «Ora serve una vera rivoluzione, senza rottamazioni. Altrimenti rischiamo che a scioglierci ci pensi qualcun altro». Sul tema si esercita anche il capogruppo in Europa Brfndo Benifei: «Abbiamo perso perché in pochi hanno creduto che il programma potesse essere portato avanti da una classe dirigente screditata. È credibile che possa cambiare il Jobs Act chi lo ha magnificato?». Anche Marco Sarracino, giovane neoeletto a Napoli, pone il team della credibilità: «Nei mercati quando mostravo i volantini del Pd mi dicevano che eravamo ancora quelli del Jobs Act. Nelle periferie ci siamo, il problema è che non si fidano di noi. Siamo cambiati, e molto, ma fuori non se ne sono accorti».

SUL PUNTO ARRIVA IL MEA CULPA di Letta: «Parlare di Draghi sì o no ha messo in secondo piano il nostro program,a che era molto innovativo su lavoro e clima». E ammette:_«Non siamo riusciti a essere il partito di non ce la fa, non mi faccio alcuno sconto. Anche sulla rappresentanza delle donne in Parlamento abbiamo fallito». Segue la richiesta di avere ancora due donne comi capigruppo in Parlamento: probabile la conferma fino al congresso di Malpezzi e Serracchiani. Il segretario uscente fa autocritica anche sulla guerra: «Non rinnego le posizioni prese, ma dovevamo ripetere più spesso la parola pace, spingere perche l’Europa lavortasse in qeusta direzione. E non abbiamo prevenuto la crisi sociale che la guerra ha determinato, siamo arrivati tardi sulle paure».

VALENTINA CUPPI, la presidente Pd che non è stata eletta in Parlamento, tocca entrambi i punti: «Il Pd è ancora un partito maschilista, se vuoi contare qualcosa devi piegarti alla logica delle correnti». E ancora: «Tra i nostri militanti c’era e c’è sofferenza sulla guerra, è stato sbagliato etichettare chi aveva posizioni critiche come filo-putiniano». Paola De Micheli rilancia la sua candidatura: «Qualcuna deve cominciare, qualcuna che non si offende della misoginia maschile né di quella femminile».

Sulla guerra si fa sentire anche Cuperlo: «Putin è un dittatore e una sciagura, ma davanti alla strategia di Zelensky porsi questa domanda è un dovere: noi seguiamo quella scia? Avanti fino alla vittoria sul campo anche col rischio dell’atomica». Anche Cuperlo tocca il tema sociale: «Davanti a una destra sociale e non liberale, che promette protezione ai ceti impoveriti, non si vince con una sinistra delle libertà ma con una alternativa radicale e radicata».

SUL PALCO NON COMPAIONO i due capicorrente Franceschini e Guerini. E neppure Bonaccini, favorito per la leadership. Se va prima di pranzo. «Condivido il percorso proposto da Letta: un congresso vero in cui riaffermare e rigenerare l’identità del Pd», fa sapere. «Lo faremo in tempi certi e ragionevoli. Considero un passo avanti che non si discute più di nome e simbolo».

Se il governatore emiliano, alla vigilia della direzione, temeva manovre per posticipare il congresso, ha avuto rassicurazioni. Letta annuncia la sua neutralità di qui alle assise, ma ribadisce: «Dobbiamo passare il testimone a una nuova generazione per sfidare Meloni che è una giovane donna». Tanti pensano a un suo sostegno per Elly Schlein. Alla fine, la relazione passa con due astenuti e un voto contrario. Quello di Monica Cirinnà: «Si vuole solo conservare l’attuale apparato, siamo un partito respingente». Sullo sfondo, una speranza: «La maggioranza non è così forte, sono disuniti, la luna di miele di Meloni non sarà infinita», sospira Letta.