Humberto Maschio, il grande inapparente del futbol
Il ricordo Se n'è andato quest'estate, dalla sua casa di Avellaneda, in Argentina, il terzo «angelo dalla faccia sporca»: un grande calciatore, il cui nome resterà legato a quelli di Antonio Valentin Angelillo ed Enrique Omar Sivori
Il ricordo Se n'è andato quest'estate, dalla sua casa di Avellaneda, in Argentina, il terzo «angelo dalla faccia sporca»: un grande calciatore, il cui nome resterà legato a quelli di Antonio Valentin Angelillo ed Enrique Omar Sivori
Un classico del gioco del calcio, un signore del football tanto più grande quanto più misurato e inapparente, Humberto Maschio è morto lo scorso martedì 20 agosto nella sua Avellaneda, la città sull’oceano nella parte sudorientale, a qualche chilometro dal centro, dell’area metropolitana di Buenos Aires. Lì era anche nato novantuno anni fa (Humberto Dionisio Maschio Bonassi era il suo nome per esteso) da emigrati italiani, pavesi di Godiasco, esordendo ventenne nel club eponimo di Avellaneda, il Racing albiceleste, la squadra del cuore cui infatti si deve il comunicato ufficiale del decesso.
Ma il nome di Maschio è legato per sempre a quello degli altri due angeles de la cara sucia, gli angeli dalla faccia sporca, Antonio Valentin Angelillo ed Enrique Omar Sivori, come li chiamarono incrociando un vecchio film con Humphrey Bogart e un celebre foto in cui si vedeva uscire dal campo quel terzetto di fuoriclasse imberbi ma totalmente ricoperti dal fango dell’estate sudamericana. I tre, e in pratica da soli, con la maglia dell’Argentina avevano battuto il Brasile (non ancora comparso Pelé, ma di fatto la stessa squadra che avrebbe vinto l’anno dopo in Svezia il suo primo Mondiale) spacciandolo nella finale della Coppa America 1957, disputatasi a Lima.
Si trattava di un perfetto triangolo d’attacco dove Maschio, il più pensoso, fungeva da rifinitore centrale (oggi lo si direbbe un centravanti arretrato o falso nueve) per due magnifici incursori, da destra Angelillo, di origini lucane, un prodigio di agilità e compostezza stilistica che nessun centravanti avrebbe mai più eguagliata, da sinistra l’oriundo di ceppo ligure-abruzzese Sivori, autentico espada del calcio, capace ora di giocate ditirambiche ora invece di reazioni sulfuree.
In quella stessa estate del ’57 i tre vengono acquistati in blocco dai grandi club italiani, Angelillo va all’Inter di Angelo Moratti (avrà una carriera brevissima e bruciante, com’è di molti talenti precoci), Sivori alla Juventus di Umberto Agnelli dove nel 1961 si guadagnerà addirittura il «Pallone d’Oro», Maschio infine al Bologna di Renato Dall’Ara. Ma se ama la città e vi resta tre anni, nel Bologna egli sconta specialmente la tradizionale ruvidezza delle difese italiane (sono i tempi in cui si viene strutturando quale modulo dominante il calcio all’italiana, vulgariter il catenaccio) e patisce nel gioco i cambi di marcia che poco si confanno alla sua andatura compassata.
Maschio è però un maestro dei fondamentali del gioco, stop/controllo/tiro, il suo stile è senza fronzoli, indenne dai virtuosismi e talora dagli esibizionismi gratuiti di molti campioni sudamericani: al contrario, egli vede il campo nella sua profondità essenziale, come fosse un quadrante cartesiano, e sente che la sua funzione è quella di innescare o anzi di dettare lo scatto ultimativo delle punte.
Chi intuisce la sapienza geometrica di Maschio è un tecnico triestino destinato alla Nazionale, il mite Ferruccio Valcareggi dalla fronte perennemente corrucciata, allora sulla panchina dell’Atalanta cui il campione approda nel ’59 rimanendovi tre anni con un tabellino di tutto rispetto (80 presenze e 22 gol in campionato), preludio ad un trasferimento all’Inter con cui vince lo scudetto nel ’63 ma giocando poche partite perché Helenio Herrera non lo sopporta, vale a dire che non ne tollera il ritmo blando e refrattario al pressing, tant’è che presto lo esclude preferendogli un giovanissimo Sandro Mazzola.
Comunque lo ripesca Valcareggi che ne ha arretrata la posizione di qualche decina di metri e perciò ne ha fatto un centro-sostegno, alla maniera degli antichi centromediani metodisti come Monti e Andreolo. Infatti è di nuovo lui a volerlo nel ’63, stavolta alla Fiorentina, per l’ultimo triennio della vicenda italiana di Maschio, che a Firenze vince nel ’66 la Coppa Italia e la Mitropa Cup. (In mezzo c’è nel ‘62 la brutta parentesi dei Mondiali di Santiago del Cile dove, pari ad altri oriundi come Sivori e Altafini, si presenta in maglia azzurra ma è oggetto di un vero e proprio agguato nel corso di Cile-Italia: la foto di Maschio con il volto ridotto ad una maschera di sangue, per un pugno sferratogli da tale Leonel Sanchez, fa il giro del mondo). Chi invece ne ha colta nel profondo la classe straordinaria è Gianni Brera, che una domenica di tarda estate, il 27 agosto del 1961, va a vedere l’Atalanta subissata di gol dall’Inter per 6 a 0 e tuttavia si dice incantato dalla raffinatezza calcistica dell’italo-argentino. La cronaca è ora raccolta in 63 partite da salvare (Mondadori 1978): «Maschio ha offerto uno squisito recital della sua arte all’attonito pubblico milanese Vedendolo agitarsi con la bacchetta del maestro abbiamo pensato a Toscanini proditoriamente indotto a dirigere la banda d’Affori. Chiaro che, dopo qualche sciabolata a chieder note armoniose, sarebbe zompato urlando dal podio … Maschio si è semplicemente ritirato in un angolino della ribalta e ha fornito i suoi numeri di controllo, dribbling, tocco e tiro».
Il campione lascia l’Italia dopo nove anni di permanenza e torna in Argentina, nel ’66, per sfruttare immediatamente l’esperienza acquisita, a sue spese, specie in termini di malizia tattica e tigna agonistica: l’anno dopo guida da capitano il suo Racing in un double che resta l’apice nella storia del club, il duplice trionfo in Coppa Libertadores (più o meno una Champions australe) ai danni del Nacional di Montevideo e nella Coppa Intercontinentale sul Celtic di Glasgow reduce dalla vittoria sull’Inter di Herrera in Coppa dei Campioni.
Si ritira da calciatore nel ’68 e intraprende una trentennale carriera da allenatore segnalandosi per l’acume tecnico-tattico e una saggezza sempre suffragata dalla lunga esperienza. Nel suo palmarès spicca una Libertadores vinta nel ’73 sulla panchina dei cugini portegni dell’Independiente: lì ha scoperto un calciatore di classe astrale, Ricardo Enrique Bochini poi venerato da Maradona medesimo, segno che anche in panchina Maschio non è affetto dal «complesso di Salieri» che affligge tanti campioni, cioè l’invidia per chiunque altro abbia talento. Poi el Bocha, così lo chiamano in Argentina gli appassionati di calcio, dal 2000 torna alla base per divenire il tuttofare del suo club o, insomma, il simbolo. Non ha mai smentito il profilo di persona perbene ed è bello ricordare come una ventina di anni fa si sia presentato alle elezioni politiche da socialista indipendente. Troppo presto ha perduto gli altri angeli dalla faccia sporca, perché Sivori è scomparso nel 2005, Angelillo nel ’18.
Chi sta scrivendo questo necrologio vide giocare Maschio ormai una vita fa con la maglia della Fiorentina (a metà degli anni sessanta, nel vecchio stadio «Dorico» di Ancona) quando flottava in centrocampo da metronomo e lanciava a cadenza le due ali, Kurt Hamrin e Giancarlo Morrone; poi chi scrive ebbe modo di sentirlo una volta al telefono – sarà stato il 2005 o il 2006 – a seguito dell’invio di un libro che lo riguardava. Parlava da un ufficio del Racing in Avellaneda, non rammentava benissimo l’italiano ma sapeva farsi intendere e anche quella volta Humberto Maschio esprimeva il garbo e la misura di un galantuomo: la terra gli sia lieve.
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