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Hujar, l’inventario della morte di un beat vagabondo

Hujar, l’inventario della morte di un beat vagabondoPeter Hujar, "Gary Schneider in Contortion", 1979 © Peter Hujar Archive, LLC, courtesy Pace/MacGill Gallery, New York and Fraenkel Gallery, San Francisco

A New York, Pierpont Morgan Library, "Peter Hujar: Speed of Life" Con casualità anni settanta, la mostra rende omaggio a Peter Hujar, il fotografo che ha dato volto, nella tradizione di Diane Arbus, alla NY della fragilità, della maledizione. Per Susan Sontag nell’arte americana l’immagine analogica dice la perdita: così in Hujar, suo amico...

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 8 aprile 2018

«Mi sono sorpreso a piangere appena; quando tutti hanno lasciato la stanza, ho chiuso la porta e ho tirato fuori la mia super-8 dalla borsa e ho realizzato uno scandaglio del suo letto, del suo occhio aperto la bocca aperta quella mano bellissima con appena un po’ di garza al polso l’ago della flebo il colore di marmo della mano, l’impressione esatta della sua pelle – e poi la camera fissa; ritratti dei suoi piedi straordinari, della sua testa, quell’occhio aperto, ancora una volta … Questo è l’evento più importante della mia vita e la mia bocca non può sillabare nemmeno una parola e forse sono l’unico ad aver bisogno di parole forse sono l’unico ad aver bisogno di rassicurazioni e tutto quello che posso fare è sollevare le mani dai miei fianchi, perso, e dire: “Tutto quello che voglio è una qualche grazia”».
È difficile allontanare la memoria di Peter Hujar dalla sinfonia cupa e disperata del memoir dedicatogli in morte da David Wojnarowicz, amante immaturo, Rimbaud moderno e enfant prodige, figlio spirituale, protégé rispettatissimo, compagno inseparabile degli anni estremi, sodale tenero nei mesi lunghi della malattia e autore spietato, implacabile degli ultimi, candidi scatti dedicati al corpo dell’amante devastato dall’AIDS nei tempi in cui l’epidemia concedeva salvezze fortuite e imperscrutabili, tratteggiando piuttosto mutamenti atroci sui corpi giovani di una generazione.
Le parole dell’artista furono infatti incluse nel 1991 fra le pagine di un poema autobiografico, l’epopea di un mondo e di un’epoca in estinzione, chiamato Close to the Knives: a Memoir of Disintegration, prendendo a prestito il titolo della trenodia al compagno perduto. Ed anche per questo risuonano come un ricordo e come una maledizione: il marchio indelebile su una figura – quella di Hujar, il volto scavato del vagabondo beat, l’eleganza urbana di un gusto intransigente, nutrito di trouvailles più che di acquisti – che nella Manhattan warholiana e romantica aveva confidato all’amico Steve Turtell, incontrato a Fire Island per frequentarsi poi sull’arco di un decennio, il desiderio sprezzato e cool di essere discusso «nel silenzio dell’intimità… nelle chiacchiere, fra i sospiri», contro ogni roboante accanimento di una fama popolare. Tanto più che, ancora da scrivere una biografia del fotografo capace di restituirne l’esperienza umana e professionale, il suo profilo è oggi affidato alle pagine intense di un altro medaglione, quello mirabilmente composto da Cynthia Carr a celebrare per l’appunto l’eroismo avanguardista dello stesso Wojnarowicz, episodio fulgente della recente fortuna critica toccata in sorte a quel momento nella vicenda delle arti americane.
Anche da simili istanze sembra volersi distinguere la mostra oggi aperta alla Pierpont Morgan Library – Peter Hujar: Speed of Life, finop al 20 maggio – accostando le icone miserabili e splendenti della babilonia immobiliare sorta nel Lower East Side fra gli anni settanta e ottanta a quelle, antiche, collezionate dal banchiere newyorkese nello stesso edificio, quando l’isola all’inizio del Novecento sognava palazzi neorinascimentali e credeva, coi dollari conteggiati in milioni, di tramutarsi nella nuova Firenze per il mondo a venire.
Il catalogo, a cura di Joel Smith, offre un’inedita, informatissima cronologia, oltre a una bibliografia documentata, apparati utili all’inquadramento di Hujar, frutto certo della collaborazione dell’Estate dell’artista gestito da un ventennio dall’attivissimo Stephen Koch. Il volume vuole dunque essere uno ‘strumento di lavoro’ in grado di guidare il lettore – anche nel bel saggio di apertura a firma dello stesso Smith – attraverso il corpus omogeneo, coerente delle foto. Certo altri testi rievocano la silhouette di Hujar per flashback e souvenir; si sente però nell’operazione editoriale la consapevolezza del tempo passato rispetto a occasioni come la monografica apparecchiata nel 1994 allo Stedelijk Museum di Amsterdam e al Fotomuseum di Winterthur, in cui le opere si riflettevano nel moltiplicarsi delle voci dei ‘contemporanei’, da Nan Goldin a Fran Lebowitz, da Robert Levithan a Gary Schneider.
La necessità testimoniale così legata a quell’evento – la crisi pandemica lontana dalla svolta della terapia antiretrovirale – si è decantata nel corso degli anni, attraverso episodi espositivi fra cui quelli della Fraenkel Gallery di San Francisco (2014), del Leslie-Lohman Museum di New York (2014) o della Galerie Thomas Zander di Colonia (2016), i quali, garantendo una visibilità mercantile, hanno riacceso un focus critico attorno alla produzione di Hujar, schiacciata in parte – nella gloriosa storia della fotografia americana del secondo Novecento – dalle affinità formali e dalla vicinanza cronologica con due giganti come Diane Arbus (i due si incontrarono nel 1967, senza trovarsi) e Robert Mapplethorpe (che il collega, più anziano di tre lustri, definiva «il Baron de Mayer del 1980»). Si capisce dunque perché il percorso della Pierpont si apra con immagini come Daisy Aldan (1955) o La Marchesa Fioravanti (1958), attestazioni di un’educazione fra New York e l’Italia, individuando mentori e modelli per il linguaggio dell’artista; e analogamente si giustifica l’ampio ventaglio precisato dalle immagini e dalle loro cronologie, ad abbracciare l’intera sua esistenza. In una medesima prospettiva si intende la variegata rappresentanza di temi e soggetti: i ritratti (genere d’elezione), gli animali (un’eco dell’infanzia passata nella fattoria dei nonni materni), i paesaggi vuoti di persone, i nudi, le foto di gruppo.
Con queste premesse stupisce semmai che una chiara sequenza temporale non si distenda lungo le pareti e i tramezzi nella grande sala che ospita la mostra, la quale sembra piuttosto offrire nuclei d’interesse, non sempre disposti nella lampante successione di un ‘prima’ e di un ‘dopo’. Tuttavia uno dei lati ‘lunghi’ offre una ‘chiave’ a tale scelta curatoriale, individuando in Recent Photographs, l’esposizione approntata dallo stesso Hujar nel gennaio del 1986 presso la Gracie Mansion Gallery, un prototipo di allestimento: scatti organizzati in una doppia sequenza ‘a fregio’, attentamente studiata per allontanare contenuti simili, alla ricerca di un’apparente casualità dell’insieme. È in fondo l’utopia dell’ ‘inventario di un mondo’, idea che – proprio negli anni settanta – Susan Sontag, amica di Hujar e del sodale Paul Thek, consacrava come la via statunitense alla fotografia nei testi pubblicati nella «The New York Review of Books» (confluiti in On photography), citando Walt Whitman, Walker Evans, Edward Steichen. Non a caso la stessa Sontag – autrice della prefazione all’unico libro pubblicato da Hujar in vita nel dicembre ’76 – avrebbe parlato anche di un «inventario della morte», riconoscendo nel sentimento di perdita un’altra qualità tutta americana del rapporto con l’immagine analogica. Di certo l’oeuvre di Hujar è una perfetta testimonianza di questa malinconica assunzione di consapevolezza. Annunciano sempre una scomparsa i volti a occhi chiusi, i molti amici distesi e catturati dalla camera in pose d’abbandono, i ‘documenti’ sul sottobosco di una città fragile, come quella dei piers sull’Hudson o della geografia del cruising (per citare Douglas Crimp): emblematico, in tal senso, è lo struggente ritratto in assenza di Wojnarowicz, una sedia e un plaid gualcito a ricordarne lo slancio, il calore, l’odore, eseguito nel 1983.
Si capisce allora, a visitare la Pierpont, come una simile, dolcissima e atroce premonizione abitasse il fotografo già prima del diffondersi dell’AIDS lungo gli anni ottanta; e se quei giorni terribili sono allusi all’ingresso dall’icastico bianco e nero di una copertina del «Village Voice», costruita nel 1983 su un’immagine di Hujar, è forse un bene che nel chiaro labirinto dello spazio espositivo si sia scelto invece di sottrarre la sua parabola alla tentazione – pur comprensibile – di un facile teleologismo.

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