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Gulliver proiettato nelle piantagioni

Gulliver proiettato nelle piantagioniAlexander Brook

Intervista Colson Whitehead parla del suo ultimo romanzo, "La ferrovia sotterranea"

Pubblicato circa 7 anni faEdizione del 29 ottobre 2017

Occhiali da sole, dreadlocks e sigaretta accesa come ormai capita raramente di vederne tra le dita di un americano: Colson Wihitehead ha quarantotto anni e otto libri alle spalle. Pochi scrittori americani hanno saputo intrecciare come lui narrativa mainstream e cultura popolare. La ferrovia sotterranea, è la sua opera più ambiziosa, audace nell’affrontare il grande rimosso e il cuore di tenebra d’America: lo schiavismo.

Lei affronta, in questo suo ultimo romanzo, un tema molto diverso da quelli dei suoi precedenti libri, adattando anche lo stile, che è meno sperimentale. Come mai ha deciso che un libro sullo schiavismo necessitasse di uno stile più tradizionale?

Ho cominciato a pensare di scrivere questo libro diciassette anni fa e l’idea originale era sin da allora quella di trasformare la Underground Railway in un vero treno sotterraneo; ma all’epoca non ero abbastanza bravo come scrittore né abbastanza maturo come persona. Da allora, dopo aver finito ogni mio libro, sono tornato a quella idea ma solo per scoprire che non ero ancora pronto. Poi, tre anni fa, mi sono reso conto che era il momento di affrontare una questione che in realtà mi faceva paura. Quanto allo stile, credo che ogni libro richieda il suo strumento narrativo, a volte più complesso e altre volte, come in questo caso, più semplice. Il mio libro precedente,

La nobile arte del bluff, ha un argomento leggero, il poker, è scritto in prima persona ed è pieno di battute umoristiche. Ma qui mi serviva un’altra voce.

La trasformazione della metafora della ferrovia in un vero treno è il motore del romanzo, l’espediente che innesca una quantità di sviluppi e introduce un elemento fantastico in aperto contrasto con la prima parte, nella quale è invece assente ogni accenno di fantasia. Perché ha puntato sulla trasformazione della metafora in realtà e su questa frattura narrativa tra le due parti del libro?

L’idea di trasformare la ferrovia sotterranea in una vera linea ferroviaria nasce dalla mia infanzia. Quando da bambino senti parlare della Underground Railway ti vengono in mente immagini molto evocative. Poi, scopri che è solo una metafora e resti un po’ deluso. Volevo sviluppare quell’idea infantile, però prima di addentrarmi in questa parte più fantasiosa del libro ci tenevo a dare un quadro molto reale della vita nelle piantagioni. Non mi interessava scrivere un libro come Via col vento che, a parte ogni altra considerazione, è la storia di un personaggio femminile e lascia la piantagione sullo sfondo. Quindi ho adotatto uno stile molto realistico, mostrando la dimensione quotidiana, «normale» di quell’orrore. Tanta violenza e brutalità non avevano bisogno di essere drammatizzate ulteriormente.

La «materializzazione» della ferrovia le permette di far «saltare» Cora, la protagonista, da una realtà all’altra. In ciascuna deve confrontarsi con una situazione molto diversa dalle precedenti, secondo un modello che ricorda il Gulliver di Swift. Forse le diverse realtà che Cora incontra rappresentano le varie forme che il razzismo assume in America?

Il riferimento a Gulliver è esatto. Quando raccontavo agli amici la mia idea immancabilmente la trovavano stupida e io rispondevo proprio citando Swift, per dimostare che invece poteva funzionare. Tra i miei modelli c’è anche l’Odissea, dove l’eroe viene sottoposto a molteplici prove nel suo viaggio verso la salvezza. Lo stesso succede a Cora, che nelle sue diverse tappe, ciascuna in uno Stato differente, incontra elementi tratti da una realtà che io ho estremizzato. Ad esempio, è vero che nella Carolina del Nord le leggi razziali erano particolarmente dure: da lì sono partito per immaginare una situazione simile a quella degli ebrei nella Germania nazista, che in fondo ha sviluppato le vecchie leggi razziali americane. Non potrei dire che il viaggio di Cora rispecchi l’America di oggi, però qualcosa di molto simile c’è. Per esempio, il parallelo tra le pattuglie dei vigilanti nel mio libro e l’attuale polizia bianca è molto realistico.

Nel libro c’è un solo vero personaggio bianco: il «cacciatore di schiavi» Ridgeway, che ricorda i cacciatori di scalpi descritti da Cormac McCarthy in «Meridiano di sangue». E’ un personaggio molto forte e complesso, quasi un «razzista metafisico», con una sua grandiosità…

Volevo costruire un antagonista di Cora tanto formidabile quanto lo è lei. La sua forza e l’enorme coraggio che dimostrerà fuggendo, li ho rappresentati in due episodi precisi: quando affronta lo schiavo che vuole rubarle il suo piccolissimo orto e quando difende un bambino picchiato. Fissati così questi punti sulla mappa, tutto il seguito del personaggio è venuto di conseguenza. Quanto a Ridgeway, egli riunisce in sé tutte le correnti di pensiero che hanno costruito gli Stati Uniti rendendoli ciò che sono: il suprematismo bianco, il destino manifesto, l’imperialismo.

Negli ultimi anni, oltre al suo, sono usciti alcuni romanzi importanti sullo schiavismo, per esempio «Le donne della notte» di Marlon James e «Non dimenticare chi sei» della scrittirice americana nata in Ghana Yaa Gyasi. Pensa che la percezione dell’età dello schiavismo, nell’America bianca, sia cambiata dai tempi di «Radici» di Alex Haley o da quelli di «Amatissima» di Toni Morrison?

Sì sono usciti molti romanzi e sono anche stati girati film, ma servono a poco quando si tratta di fare i conti con la propria storia. L’America era e resta razzista. I libri non bastano a cambiare la percezione che ha di sé il paese in cui viviamo…

Cosa pensa dell’abbattimento delle statue di Lee e degli altri generali della Confederazione nel Sud?

È giusto. Lee si è macchiato di tradimento ed era un suprematista bianco. Perché dovrebbero esserci le sue statue? Se la storia va raccontata in tutta la sua complessità, questo deve essere fatto a scuola, non tramite le statue. In realtà io penso che bisognerebbe fondere tutte le statue d’America e poi usare il materiale per erigerne di nuove a persone come Richard Pryor, Madeline Kahn e John Carpenter. Sono loro i veri eroi americani.

Nei «Ringraziamenti» finali, dice di aver scritto questo libro ascoltando David Bowie, Prince e i Sonic Youth. Cosa sta ascoltando in questo periodo e per lavorare a quale nuovo libro?

Ho sempre tratto ispirazione dalla musica quanto dai romanzi e dai film e ho sempre lavorato ascoltando musica. Ora sento i Clash, Bowie e John Coltrane, mentre lavoro a un romanzo sugli anni della lotta per i diritti civili. Ma sono appena all’inizio…

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