Quanti sono i diplomatici nel mondo? Una moltitudine. A loro si chiede di mediare fra contrapposti interessi per prevenire scontri letali tra Stati avversari. Il segreto del successo sta nel capire bene le «ragioni dell’altro» e farle convergere con le «ragioni della pace», prima che la situazione s’incancrenisca e sfoci in conflitto armato. Le diplomazie hanno avuto quindici anni di tempo per capire le frustrazioni della Russia e farle convergere con le ragioni della pace.

CHI ASSISTÉ NEL 2007 alla Conferenza sulla Sicurezza di Monaco notò con quale sufficienza i delegati ascoltavano il cahier de doléances presentato da Putin. Il quale, l’anno dopo, venne umiliato a Bucarest dalla disinvolta proposta di George W. Bush di spingere la Nato fino all’Ucraina e alla Georgia, ossia al «ventre molle» della Russia. Fu Obama a tentare un reset con Mosca; ma quando Putin offrì una bozza di Trattato sulla Sicurezza Europea con misure di prevenzione delle crisi, gli venne opposta una fin de non recevoir.

Nel 2014, abbattuto a Kiev il governo filo-russo, il nuovo governo firmò un accordo con l’Ue, accolse tecnici della Nato e decretò l’ucraino unica lingua ufficiale, quasi che il russo non fosse la lingua comune. Intanto Mosca aveva reagito: si riprese senza colpo ferire la Crimea russofona. Quindi fomentò la secessione di due provincie del Donbass a maggioranza russa; una mediazione franco-tedesca provò a placarla con due Protocolli firmati a Minsk (2014 e 2015) che concedevano ampie autonomie al Donbass: mai implementati.

A dicembre scorso Mosca ha proposto alla Nato un pacchetto di Misure di Sicurezza e agli Usa un Trattato sulle Garanzie di Sicurezza. Offerte strumentali, con l’esercito che si stava già schierando, ma averle archiviate è stato l’ennesimo affronto, sfruttato abilmente dal Cremlino. Chi ha incontrato Putin negli ultimi anni è rimasto colpito dalla sua paranoia sull’Ucraina (uno per tutti William Burns, direttore della Cia: «l’ho visto nutrirsi sempre più di un’esplosiva miscela di rancore, ambizione e insicurezza»). L’Ucraina nella Nato – ha scritto Putin in un articolo nel luglio 2021 – «sarebbe come un’arma di distruzione di massa usata contro di noi».

QUANTE SONO STATE in quindici anni le occasioni perdute dalla diplomazia? Tante, troppe, nonostante l’Organizzazione per la Sicurezza e Cooperazione Europea, l’Osce, nata nel 1995 proprio per prevenire o risolvere controversie come questa. L’Osce è composta di ben 57 Paesi e di un segretariato a Vienna. Dispone di centinaia di diplomatici, a cui andrebbe chiesto come hanno operato per convincere i propri governi a disinnescare quella miccia a lenta combustione. I diplomatici non sono dei passacarte; ci si aspetta che sappiano leggere i segni dei tempi, capire le ragioni dell’avversario e convincere i propri governi a negoziare. I margini negoziali c’erano.

Con qualche sofferto compromesso la soluzione era a portata di mano: 1° neutralità protetta dell’Ucraina; 2° referendum nel Donbass; 3° rinuncia alla Crimea. Si è preferito rinunciare alla pace, in nome di un’autodistruttiva coazione a guerreggiare. Come sempre, la curva dell’orgasmo bellico raggiunge l’acme durante i raid aerei, le incursioni, le avanzate a bandiere spiegate nella certezza di essere accolti da liberatori. Poi le truppe si impantanano in scontri d’usura, imboscate, cadaveri in putrefazione fra le rovine di città in rovina. Inizia la fase calante, scemano i fremiti eroici ed erotici, si insedia uno stato depressivo.

IRONIZZA JEFFREY SACHS, avveduto economista americano: «Che significa “sconfiggere la Russia”? I nostri leader sono pronti a combattere fino all’ultimo ucraino! Sarebbe meglio far la pace che distruggere l’Ucraina in nome della “sconfitta” di Putin» (Corriere della Sera del 2 maggio). Sachs sa di cosa parla.

Il 7 maggio, mentre Zelensky ammetteva di poter un giorno rinunciare alla Crimea, il Segretario della Nato Stoltenberg proclamava: «L’annessione illegale della Crimea non sarà mai accettata dalla Nato», aggiungendo – bontà sua – che spetterà agli ucraini decidere. A parte il fatto che la parola «mai» non esiste in politica, era bene ribattere che gli europei, abituati da sempre a modifiche di confini, preferiscono salvare la vita degli ucraini piuttosto che la intangibilità delle frontiere (che intangibili non sono mai state).

Col senno di poi c’è da chiedersi: la nostra indifferenza alle richieste di Mosca ha influito sulla sua deriva verso l’autocrazia neo-zarista? Ciò non assolve Putin dai suoi crimini orrendi né la Russia post-sovietica dalla sua incapacità di attrarre i vicini. Tuttavia, non esime l’Occidente dal riflettere sulla propria hubris verso una Russia indebolita, che spende per la difesa 17 (diciassette!) volte meno dei Paesi Nato.

LA RUSSIA FA COMUNQUE parte dell’Europa ed è imprescindibile tendere una mano alla sua gente, in particolare ai giovani – oggi silenziati, quasi fossero sequestrati dietro le mura del Cremlino. Le tecniche moderne offrono ai giovani vari modi di comunicare fra loro messaggi non propagandistici: resistete, alleatevi con i giovani europei contrari alla guerra e alla voragine di spese per armamenti. Se la diplomazia istituzionale ha fallito, proviamo con la people to people diplomacy.

La Federazione Mondiale della Gioventù Democratica vanta al suo attivo 19 Festival della Gioventù: gli ultimi tre a Pretoria (2010), Quito (2013) e Soci (2017) con migliaia di giovani venuti da mezzo mondo. L’Austria, nazione neutrale ed accogliente, potrebbe ospitare il prossimo. Non sembri un’idea velleitaria: immaginiamo pure che Mosca tenterà di appropriarsene politicamente. Ma voi – voi giovani – resterete uniti dal senso di un comune destino: salvare la vostra generazione dai disastri della guerra e dei cambi climatici.