Un volume agile, con pochissime note e nessun apparato erudito, che guarda al mondo antico «nulla al ver detraendo», cioè senza le idealizzazioni esclamative del classicismo di ogni epoca, e soprattutto senza le fantasie mitologiche e gli irenismi sentimentali, così in auge al tempo nostro. In Guerra e schiavi in Grecia e a Roma Il modo di produzione bellico (Sellerio «Il divano», pp. 110, € 13,00), Luciano Canfora propone una serie di riflessioni che sollecitano il passato attraverso domande del presente, e viceversa. L’importanza della schiavitù nel mondo antico fu un tema dominante nella ricerca storica, archeologica e letteraria fino agli anni ottanta, ma oggi è ben marginale: il che è curioso, visto che il lavoro senza diritti è realtà assai presente nell’odierno mercato globale. L’eloquente sottotitolo riprende un concetto tipico della storiografia marxista, il «modo di produzione» (Produktionsweise). Ma non discute, come quella, di modo «asiatico», o «schiavista» o «capitalista», bensì di uno «bellico», perché la guerra di rapina costituì un’esperienza centrale per il mondo antico (non solo quello greco-romano), più di quanto solitamente si evidenzi.

Guerra non vuol dire eroici duelli, né «bella morte», bensì strumento di potenza e soprattutto fonte primaria per accaparramento di risorse. Le modalità escludevano la «guerra totale» (con la possibile eccezione della terza punica), e privilegiavano la razzia anche o soprattutto di schiavi, come documentato da prassi antichissime (in tempo di «pace» i mercati erano alimentai in altri modi, o da guerre altrui). E subito affiora un problema che tanto ha fatto discutere, già negli anni di più intenso lavoro sul tema: quanti erano gli schiavi? I dati della demografia antica, e ancor più di quella servile, sono stati considerati incerti, inducendo quindi a dubitare dei «grandi numeri» conservati dalla tradizione in modo non sistematico. Parlando dei porti della Cilicia, il geografo Strabone asserisce (14.5.2) che negli anni migliori del commercio mediterraneo di schiavi, nel II secolo a.C., al mercato dell’isola di Delo si poteva arrivare a trattare in un giorno fino a varie migliaia di Stücke («pezzi», come in altre deportazioni: lo schiavo era, come disse Mommsen «merce vivente»). Dato credibile? Per capirlo, anche le rovine dell’isola sono state indagate, per valutare la capienza delle strutture, ma senza esiti decisivi.

Sicura, piuttosto, è la preoccupazione dei moderni di ridurre le dimensioni del mercato schiavista ellenistico, quasi a scagionare l’Ellade, con i suoi partenoni democratici e i suoi filosofi pensosi delle idee, dal peso di aver praticato per secoli la tratta di uomini, e di averlo fatto, in certi periodi, su scala industriale. La rimozione del tema conosce varie forme: nella pagina più nota del «discorso» democratico ateniese, il fin troppo famoso «epitafio di Pericle», l’elogio della potenza ateniese non implica alcuna menzione del fondamentale apparato schiavile su cui si reggeva anche l’impero ateniese. Eppure, marginali episodi di rivolta, nel mondo greco di età classica e poi ellenistica, ricordano la dimensione del problema. Il quale torna visibile, con maggior chiarezza, in età romana.

L’età dell’imperialismo e delle conquiste comportò un afflusso enorme di schiavi, e anche l’esplodere di pericolose rivolte. Il Mediterraneo del II secolo a.C. era ormai un mondo interconnesso, come vide già Polibio, e i moti ripercuotevano i propri effetti su contesti differenti. Anche per questo, lo sguardo dello storico spazia nel corso del libro tra vicende diverse, attraverso passaggi in apparenza arditi, dagli schiavi ribelli in Sicilia e Spartaco, e di là a Mitridate e finalmente al ribelle Calgaco in Britannia. Dunque, dalla repubblica all’impero. Fu Tacito a immaginare le dure parole del britanno ribelle contro l’avidità imperialistica romana: fu Tacito, di fronte ai Germani e al decadere della tradizione imperiale, a essere turbato dal pensiero che il mondo si avvicinasse alla propria fine (temuta, ipotizzata, prevista).

Nel libro di Canfora, i passaggi tra questi differenti temi sono impegnativi per il lettore, nei modi familiari a chi conosce la prospettiva storica e politica, e lo stile, di Canfora. Il discorso è sempre ancorato ai testi, e poco concede alle gradevolezze dei buoni sentimenti. Emerge, ben chiara, la prospettiva del filologo, attento ai dettagli dei testi. La critica alla durezza della politica romana non viene da moderni terzomondisti, ma già da voci antiche, delle quali è decisivo valorizzare anche le pieghe talora allusive. Nel suo poema sulla Natura delle cose, l’epicureo Lucrezio attacca più volte la vana ambizione della politica, chiarendo che alla felicità giova essere quietamente sottomessi più che voler comandare (regere imperio res velle et regna tenere: 5.1128).

Una risposta a questa radicale dismissione dei «doveri» del vero uomo romano venne da Virgilio. Nel regno dei morti, le parole di Anchise a Enea delineano la visione di un destino romano di potere, usando le stesse parole: tu regere imperio populos, Romane, memento. Che cosa poi fosse nella realtà quell’imperium, che si pretendeva legittimo e giusto, è ben noto. Anche ai nemici: per esempio all’unica cultura soggetta del Mediterraneo romano di cui oggi si conosce adeguatamente la voce. Il giudaismo precocemente colse quanto fosse importante godere della «protezione» romana rispetto agli aggressivi vicini, ma successivamente sperimentò la durezza di quel sistema bellico: quando Pompeo sottomise l’area siriana, e più tardi quando i tentativi di sottrarsi all’oppressivo regime generarono la reazione feroce, al tempo del «terzo Cesare», che portò alla distruzione del Tempio. In molti si son dichiarati, come è noto, eredi dell’impero di Roma. Spesso lo sono stati anche dei suoi metodi.