In copertina c’è un muro screziato e la foto invecchiata di un volto recente, che una cornice sbilenca fatica a centrare. Altrettanto arduo era stato inquadrare la sostanza di Canzoni da intorto (Bmg), presentato ieri da Francesco Guccini alla Bocciofila Martesana di Milano (anteprima cui seguirà un nuovo incontro milanese il 26 e uno a Roma il 10 dicembre, entrambi presso i punti Feltrinelli).

Non che fossero mancati ritorni di fiamma con il microfono, dai duetti con Vecchioni ai due inediti per gli altrettanti volumi di Note di viaggio (2019-2020); ma nulla lasciava presagire un nuovo album a dieci anni da L’Ultima Thule, tanto meno un disco di cover.

Gesto che, curiosamente, avvicina Guccini allo Springsteen di Only The Strong Survive, uscito solo una settimana fa. Come il Boss, Francesco sveste i panni del cantautore per indossare quelli dell’interprete, rivendicando la paternità dell’idea come a prevenire il sospetto di un progetto calato dall’alto: «È una folle operazione nata tanti anni fa, ma il mio manager del tempo [Renzo Fantini, nda] non ha mai voluto realizzarlo».

È una folle operazione nata anni fa, ma il mio manager del tempo non ha mai voluto realizzarlo. Pezzi marginali che hanno fatto impallidire i discografici

UNDICI BRANI conosciuti in gioventù per tradizione orale, raccolte di canti popolari, radio e vecchi dischi a 78 giri. Un canzoniere gucciniano lungamente rodato tra balere e osterie di fuori porta: «Canzoni marginali, che hanno fatto impallidire i discografici», racconta dal palco della Bocciofila.

Canzoni da intorto, ossia «per circuire qualcuno o meglio qualcuna», spiega attribuendo il titolo allusivo a sua moglie: «Come se le canzoni da me cantate nelle serate con gli amici servissero solo ad abbindolare innocenti fanciulle, piegandole ai miei turpi desideri… Ma ammetto che un paio di brani qui presenti potrebbero essere stati usati alla bisogna».

Controcorrente la scelta di non uscire in streaming: «Ignoro cosa sia», confessa lapidario. Inedita l’affollata compagine che lo affianca, guidata da Fabio Ilaqua e Stefano Giungani, con Vince Tempera e Flaco Biondini unici reduci della formazione storica. Ne risulta una linea di arrangiamento global-folk, un incrocio tra Van de Sfroos (tra gli ospiti), Bregovic e Casadei, che va a cozzare con la gravità del brano d’apertura, il classico Morti di Reggio Emilia di Fausto Amodei. Un cantacronache amato da Guccini al pari di Sergio Liberovici e Margot Galante Garrone, omaggiati in Tera e Aqua e Le nostre domande, estratto di un disco regalato a Francesco da una compagna di università.

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DI MEMORIA in memoria il Guccini interprete si cimenta col dialetto milanese di Ma mì e El me gatt, il piemontese di Barun Litrun — dialogo «quasi western» tra il barone von Leutrum in punto di morte e re Carlo Emanuele III — e l’inglese di Greensleeves.

L’intorto si sustanzia in brani come Quella cosa in Lombardia, cronaca di amore profano narrata da Franco Fortini, che lo induce a commentare: «Chi dice “sono solo canzonette” non ha mai ascoltato questi pezzi».
Ma la tinta prevalente è quella del canto di protesta e di resistenza, ed è in quei versanti che la voce, benché sfiorita, appare più autentica e vibrante: Nel fosco fin del secolo è ancora «la nonna della Locomotiva, per lo stile retorico, quasi tragico, di certi versi», ma anche per l’onestà dell’interpretazione. Resistenza storica e familiare è quella di Sei minuti all’alba, scritta da Jannacci per il padre partigiano. Resistenza è quella che Guccini, partendo dal passato remoto, coniuga al presente nella ghost track Sluga Naroda, chiusa dal motto Slava Ukraini: «Quando alle medie abbiamo studiato l’Iliade, la classe si è divisa tra troiani e greci. Io tifavo per i troiani e tifo ancora per loro».

DOPO la lunga attesa, forse si può raddrizzare quella cornice sbilenca. Per farlo bisognerebbe rinunciare a quell’idea mitica che tende a svilire la prima parte della sincrasi cantautore affinché la penna prevalga sempre sulla voce.

È un disco particolare, quello uscito oggi, una lunga bonus track dopo anni di silenzio, che non cambierà il giudizio su un corpus discografico monumentale; ma è pur sempre un album di Guccini. Del Guccini di oggi, certo, anch’egli in bilico tra il divertissement da Opera Buffa, la nostalgia, la memoria civile e un gesto d’amore che va ben oltre l’intorto.