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Grazie Enrico, adesso tocca a me

Grazie Enrico, adesso tocca a meMatteo Renzi

Pd Via libera dal partito: 136 sì, 16 contrari e 2 astenuti. Il sindaco rottamatore «corre il rischio» senza passare dalle urne: «Non ci sono le condizioni»

Pubblicato quasi 11 anni faEdizione del 14 febbraio 2014

Rapido, meno di mezz’ora. E non di cinema, promette. Rinunciando alle battute e alle smargiassate. Perché «non siamo qui a fare il processo al governo», e non «è un derby caratteriale» con «Enrico», che del resto ha deciso di non presentarsi. E’ il momento, per Matteo Renzi il velocista, di cogliere L’attimo fuggente, e un po’ di cinema lo mette, almeno nella citazione del film di Peter Weir, prendendo a prestito i versi di Robert Frost declamati dalla Dead poets society: «Due strade trovai nel bosco e scelsi la meno battuta». E a tutto il partito il segretario chiede di seguirlo lì, in un’avventura «certo rischiosa», per «uscire dalla palude». Ma è un avventura che ha un avvio senz’altro traumatico.

E’ la richiesta di sfiduciare Enrico Letta, un uomo del partito, quella che Renzi mette subito sul piatto della direzione Pd, leggendo velocemente, come se fosse un ordine del giorno qualunque, il documento da votare: tante grazie, Enrico, ora la tua, di strada, si è conclusa. Avrebbe preferito andare alle elezioni, ma non c’erano le condizioni, spiega il segretario che si sente ormai adulto, «inizi a diventare grande quando smetti di fare solo le cose che ti piacciono». Nessun processo a Enrico, tanto il più è fatto, ma neanche una «staffetta», perché il premier in pectore ovviamente vuole cambiare verso e «ritmo», assicura. E arrivare al 2018 con una «legislatura costituente», anche con il «vento in faccia» e senza smentire, anzi rivendicando un’«ambizione smisurata». Una «fase nuova», è scritto nell’ordine del giorno alla fine approvato con 136 sì, e soli 16 no e 2 astenuti (e quattro lettiani di stretta osservanza che lasciano la sala e non partecipano al voto). Il segretario parla di «nuovo esecutivo» che sostituisca quello «di servizio» guidato da Letta, ma «da condividere con l’«attuale coalizione di governo», e allora la «fase nuova» si fa fatica a scorgerla. Mettendo in campo anche «profonde riforme economiche e sociali necessarie alla promozione di sviluppo, crescita e lavoro».

La strada di Renzi verso palazzo Chigi appare subito spianata dal dibattito in direzione, anche se tra tante citazioni poetiche, da parte della minoranza – al quale il segretario mette in conto il redde rationem («questa discussione nasce da una richiesta della minoranza», dice) i distinguo non mancano. Ad esempio Gianni Cuperlo, che è stato presidente dell’assemblea del Pd renziano per un attimo subito fuggito, il tempo di essere preso bruscamente di petto dal segretario in diretta streaming, vorrebbe ad esempio evitare di votare subito il documento. Chiede il tempo di un confronto nel partito, perché la «svolta contiene in sé un elemento drammatico». E quello che sta avvenendo, la sfiducia a un premier ex vicesegretario del partito, la presa di palazzo Chigi senza passare per le urne e neanche per il parlamento (ma non è ancora detto), troncando il «rapporto tra partito e governo» in un modo che «non è proprio di una democrazia parlamentare», è qualcosa che va elaborato e spiegato all’esterno. E Goffredo Bettini chiede per questo una discussione nei circoli, ma chiede anche che non sia cambiato solo un nome, Letta con Renzi, ma la fase. Con un allargamento della coalizione, si augura, e puntando i piedi con l’Europa.

Sono in tanti a sottolineare che gli elettori, la base, il popolo del Pd, insomma, ne aveva immaginata un’altra, di strada e questa fa molto fatica a seguirla. E Stefano Fassina (che si asterrà, mentre Cuperlo approverà la sfiducia al premier) lancia un appello in extremis Enrico Letta, si dimetta su due piedi, e così non dovrà essere mandato a casa dal suo partito. Ma al suo partito Letta chiedeva proprio questo, assumersi la responsabilità di metterlo alla porta brutalmente, senza tentare di indorare la pillola.

Finisce così, con tanti, tanti, ma tanti «grazie Enrico» e tanti che assicurano «non sono ringraziamenti di rito», per carità. Eppure come nota con amaro sarcasmo Peppe Civati, «mi hanno accusato spesso di non essere vicino a Letta gli stessi che dalla sera alla mattina hanno trovato a Letta tutti i difetti del mondo». Anche perché l’orizzonte del 2018 è roseo. «Il paese non chiede di andare al voto», giura tra gli altri Piero Fassino. E «che cosa significherebbe andare alle elezioni oggi, per una forza che ha 400 parlamentari?», domanda serio il capogruppo Roberto Speranza. Sicuramente, senza Porcellum e senza Italicum, averne molti di meno, sarebbe la risposta. Ma con il grazie Enrico, quel rischio per ora è scongiurato.

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