La riunione del consiglio dei ministri di oggi, che pareva condannata a diventare incandescente, filerà liscia. Ci saranno il decreto «salva-casa» e quello sport-scuola, ma dovrebbero essere depurati dai passaggi che il presidente Mattarella aveva segnalato come non «necessari e urgenti». Gli uffici legislativi del Colle e di palazzo Chigi hanno lavorato per giorni sui testi ma se dovessero esserci sgradite sorprese Mattarella ha detto chiaramente che stavolta non firmerà.

LA BOMBA REDDITOMETRO, invece, la ha disinnescata in anticipo la premier, imponendo al suo imprudente viceministro dell’Economia Leo la «sospensione» dello stesso. L’intera maggioranza tripudia. Prova a guastare la festa Giuseppe Conte: «Se lo rimangiano adesso che sono in campagna elettorale ma lo riproporranno un attimo dopo». In effetti il sospetto di un “congelamento elettorale” aleggia ed è impossibile evitarlo. In realtà a breve arriverà la riforma del medesimo strumento, veicolata da uno dei prossimi decreti attuativi della delega fiscale. Dovrebbe specificare che lo Stato potrà essere «spione» (copyright Salvini) solo nei casi di omessa dichiarazione dei redditi e a fronte del superamento di soglie spesa ancora da definirsi. Per ora il governo impugnerà piuttosto il dimezzamento delle sanzioni sugli illeciti contributivi, dal 240 al 120%, che il consiglio dei ministri varerà oggi: quale prova migliore di fisco amico si può chiedere?

DA UN LATO PERÒ CONTE il malpensante ha certamente ragione. Subito dopo la chiusura delle urne il governo dovrà affrontare il problema che il viceministro Leo sperava di iniziare a scalfire con il provvedimento-bestemmia. Appena superate le rapide elettorali arriverà la procedura d’infrazione per deficit eccessivo. Eccede di parecchio essendo lievitato grazie al Superbonus fino al 7,4%. La procedura si tradurrà in un esborso pari a una decina di miliardi l’anno, ai quali bisognerà aggiungere quella ventina e passa di miliardi necessaria per confermare le misure bandiera del governo, la conferma del taglio del cuneo fiscale e la riduzione degli scaglioni Irpef. Una parte sostanziale dei fondi necessari a coprire quella spesa dovrebbe arrivare dal concordato fiscale, solo che le aziende che vogliono conciliare sono un esiguo drappello. La trovata di Leo doveva servire proprio a dare una spintarella ai recalcitranti. Il pungolo non c’è più. La spinta resta necessaria.

NON CHE BASTI. In un clima di grande cordialità il Fmi ha presentato al governo una serie di richieste da far drizzare i capelli sulla testa. La prima è l’abolizione secca del Superbonus. Ieri la Camera ha approvato in via definitiva il dl sui bonus. La norma principale è quella, retroattiva sino al primo gennaio 2024, che spalma su 10 anni invece che su 4 il rimborso dei crediti fiscali. Già dall’anno prossimo le banche non potranno più compensare i crediti con debiti previdenziali. Sempre dal 2025 il bonus ristrutturazioni scenderà al 36% e poi, dal 2028 al 2033, al 30%.

È il quarto intervento che mira a limitare gli effetti devastanti dei bonus e non sarà sufficiente. Non lo pensano solo i tecnici del Fondo. Lo sa anche il ministro dell’Economia Giorgetti che sarebbe del tutto favorevole al taglio secco. Ma deve fare i conti con la politica, che da quell’orecchio ci sente malissimo, e con gli industriali, anche più agguerriti. Il primo atto del nuovo presidente di Confindustria Emanuele Orsini è stato proprio far sapere che «non possiamo pensare che si dica stop dall’oggi al domani al Superbonus», annunciando imminenti proposte degli industriali.

IL FONDO MONETARIO internazionale, in realtà, vorrebbe anche, in tempi molto celeri, un surplus del 3% dell’avanzo primario: una sessantina di miliardi. Non li otterrà naturalmente, ma qualcosa il governo dovrà trovare per andare almeno incontro all’esosa richiesta. Insomma, con tutta la sua intempestività il problema della premier non è Maurizio Leo. È quell’antico detto popolare che lei, popolana verace, certo conosce: «L’acqua scarseggia, la papera non galleggia».