Da qualche giorno su Raiplay, dopo la messa in onda su Rai 3 a far da controcanto all’ultima serata di Sanremo, galleggia Gli ultimi giorni dell’umanità, opera di enrico ghezzi realizzata insieme ad Alessandro Gagliardo, presentata fuori concorso alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2022 e distribuita nelle sale, la scorsa primavera, dalla Cineteca di Bologna.

IL TITOLO è preso dall’omonima tragedia (in cinque atti più prologo ed epilogo) scritta da Karl Kraus intorno alla Prima Guerra Mondiale, una pièce scomposta da voci, deliri, testi, pensieri. Considerata «irrappresentabile» da tanti ma non da Luca Ronconi, che nel 1990 la porta in scena nella ex fabbrica Fiat del Lingotto. «È la natura del dramma, in casi come questi, a suggerire dapprima, ad imporre poi, una struttura spettacolare che esuli non solamente dallo schema consueto ma che esiga, da parte di chi la utilizzerà, una sorta di inconsueta e magari inaudita disciplina. Kraus chiede a chi lo legge, e chiederà a chi vi assisterà, una capacità di riflessione che dovrà diventare una capacità di scelta per lo spettatore» scrive Ronconi nelle note di regia.

Nel film di Gagliardo/Ghezzi, dopo un’ora circa, Jean-Marie Straub durante una conferenza con Danièle Huillet, chiede «Chi può dire di aver letto un libro?», «e chi può dire di aver visto un film?», rilancia ghezzi mentre filma dalla prima fila. Con lucida passione il grande cineasta che messo in scena Kafka, Mallarmé, Pavese abbraccia l’osservazione del suo amico e risponde: «Ho impiegato dieci anni per imparare a vedere un film. L’ho fatto con pazienza. Basta aprire gli occhi e le orecchie, guardando e lavorando col cervello e con il cuore, con la pancia e con i piedi anche».

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La diabolica simpatia di Godard per i Rolling StonesLE PAROLE di Straub e Ronconi non sono sfoggio di sapere ma strumenti di salvataggio, frantumi di un’arca naufragata a cui aggrapparsi per galleggiare in un oceano tempestoso di immagini e suoni, per trovare l’abbandono necessario alla deriva che la visione dell’opera richiede.
Né documentario né fiction, non un diario né appunti per un film «infilmabile», niente a che vedere con il teleliquido pervasivo di Blob né con il contenitore Fuori Orario, lontano dall’avanguardia di Zaum ma anche dai (non) film realizzati precedentemente dal più grande giocatore di immagini cinetelevisive (mai) visto in Italia, Gli ultimi giorni dell’umanità è una «cosa», concetto a lui tanto caro, di enrico ghezzi che non somiglia a nessun’altra.
Enrico Ghezzi
Penso che il cinema sia la chiusura di tutte le arti. La catastrofe finale, lunghissima, nella quale possiamo giocare molti ruoli
Non somiglia a Gelosi e tranquilli, il corto girato alla fine degli anni ’80, nonostante alcuni sguardi familiari, né all’olimpionica odissea Roma-Sidney del 2000 o a Parola (su una) data, che interroga cineasti e filosofi intorno alla data dell’11 settembre 2001. Il «villaggio più prossimo» (giocando con il titolo del racconto di Kafka, detto da Aura Ghezzi nel film insieme a Desiderio di diventare un pellerossa) è L’acquario di quello che manca, il libro/labirinto pubblicato da La nave di Teseo nel 2021 che raccoglie scritti editi e inediti, progetti, interviste, appunti… Gli ultimi giorni dell’umanità si apre proprio con la voce di enrico che nel buio ripete due volte il titolo del libro curato da sua figlia Aura, qui attrice unica, statuaria, che lascia cadere gocce di Kafka nei marosi, sibila il Maelström di Poe nel furioso vento (del cinema) che soffia nelle tre ore e un quarto di film, parole che squarciano i tessuti delle immagini e spalancano un baratro che va dagli abissi più profondi all’ignoto spazio. Se il libro era un acquario, un universo parallelo qui e altrove in cui tuffarsi e annegare, con il film siamo in un oceano (a volte d’acqua altre di fuoco, terra, aria, luce) in tempesta, onda dopo onda siamo continuamente sbattuti in un naufragare tutt’altro che dolce.

ALESSANDRO GAGLIARDO e Aura hanno parlato di «allegria di un naufragio» ma più che un’alleg(o)ria Gli ultimi giorni dell’umanità, con il suo tono malinconico e la sua metrica variabile, è un’elegia, distica già nell’essenza dei due (non)autori così diversi tra loro. È un film/elegia come quelle di Alexandr Sokurov, che riguarda una vita, le eccedenze di una vita, un accumulo tale di amores, si pensi a Ovidio, sublime scrittore anche di Metamorfosi, da divenire immagini. In questa pioggia di luce, specchio (frantumato) di un’anima, appaiono e scompaiono film, familiari, registi e registri disparati, lo spettatore è invitato a perdersi e farsi consumare dal fuoco, In girum imus nocte et consumimur igni, come il grandioso ultimo film di Guy Debord, riflessione altrettanto amara, meditata tra le acque ferme della laguna, che proprio enrico ghezzi ha rilanciato prima a Venezia e poi in Tv.

Alessandro Gagliardo
Arrivare a una forma partecipe del desiderio di libertà, significa lo smontaggio di una produzione gerarchica e programmaticaNe Gli ultimi giorni dell’umanità cinema, anzi cinemi per dirla con enrico, anni, vita si sfaldano e si rincorrono, si trovano e si lasciano senza soluzione di continuità, scompongono una jam session nel segno del Godard Scénario du film “Passion” e sempre sulle tracce di Roberto Rossellini e del suo cinema totale dove lo spazio (Roma, Europa, India) e i numeri (anno zero, anno uno…) dei titoli aprono anziché racchiudere. Proprio Europa ’51, film amato, interrogato, parlato da ghezzi come 2001 Odissea nello spazio, due magnifiche ossessioni di egh, è forse il film a cui più di ogni altro guarda Gli ultimi giorni dell’umanità, chiedendosi «cosa succede a Irene/Ingrid Bergman dopo che i suoi familiari la abbandonano nel manicomio?» Questa domanda è un vecchio progetto di enrico che anni fa la pose ad alcuni cineasti invitandoli a farci un film. Gli unici a realizzare qualcosa furono Huillet-Straub con il loro Europa 2005, forse queste tre ore e più sono la risposta di enrico/Irene, le schegge e i resti sono suoi ma il naufragio e la tempesta sono anche nostri: non è lui a lasciarci, siamo noi costretti a rimanere.