La diabolica simpatia di Godard per i Rolling Stones
Archivio Articolo di Enrico Ghezzi pubblicato originariamente il 18 luglio 1982
Archivio Articolo di Enrico Ghezzi pubblicato originariamente il 18 luglio 1982
La persona che mi porta le cassette di Sympathy for the Devil, proponendone l’acquisto (siamo in un ufficio Rai), mi dice: «Sì, è un film datato, 1974, credo, ma forse può interessare in questo momento: ci sono i Rolling Stones…». Obietto che mi pare ancora più «anziano», come film, lì per lì azzardo un 1970; comunque, quando l’avevo visto mi era piaciuto molto, mi sembrava uno dei migliori Godard, poi In Italia non era mai stato distribuito regolarmente…. Con gioia, vedo che mi lascia comunque le cassette. E subito dalle filmografie salta fuori (troppo ovvio averlo dimenticato!) che il film è del 1968.
Cosi accade che, poche ore prima dei concerti torinesi, mi trovo chiuso in una stanzetta a rivedere il Godard / Rolling. Avanti e indietro quante volte voglio, ora non è come quando il film andava inseguito in rare salette, quei tempi lontani. E la sorpresa giunge subito. In cinque minuti, mi accorgo che Godard ha fatto il più straordinario film che si sia mai visto su una rock – star, sulla musica rock, sul rock.
Nessun film ha mai dato come Sympathy for the Devil l’immagine doppia (almeno, ma non esageriamo…) del rock, la compattezza energetica e la dissipatezza di un corpo fratturato e disperso, un Frankenstein smontato i cui pezzi vanno benissimo anche uno per conto loro. Neanche Woodstock, né i vari «concert – film» in cui la performance veniva moltiplicata e franta dallo splitscreen o inframezzata dalle interviste e dai volti della platea. Neanche Janis tutto concentrato sul corpo della voce di lei. Neanche il sublime Last Waltz che del rock era l’elegia ricomposta fino a mutare infatti di nome e forma musicale.
L’unico film il cui titolo balza fuori e si scrive vicino all’altro è di nuovo un film – Rolling, Gimme Shelter, il meraviglioso documentario montato dal fratelli Maysles intorno al grande concerto gratuito di Altamont. Lì, mentre Mick cantava Sympathy for the Devil, quel diavolo che attraversa la storia uccidendo i Kennedy e assistendo a ogni misfatto col sorriso sulle labbra («please to meet you»), gli angeli dell’Inferno (Hell’s Angel) del servizio d’ordine uccisero un giovane negro che si scalmanava nelle prime file per avvicinarsi ai suoi idoli.
C’erano anche le cineprese, pronte per il grande film – sul – concerto, e quindi nel film si vede tutto. Anche Jagger si vede, sembra disperato di fronte alla moviola che passa e ripassa l’omicidio; o almeno un po’ perplesso, anche se sa bene che gli angeli dell’Inferno sono probabilmente i più adatti a proteggere una rock – star dalle affettuose simpatie del diavolo. Il film è splendido e tragico, fiammeggiante più di tutti i tramonti di Woodstock; è il rock più gli Stones, cioè forse non la coscienza del rock, ma certo l’Inconscia o Incosciente precisissima essenza dell’ambiguità del rock, del suo ossimoro di ordine disordinato: pietre che rotolano.
Naturale che, in quell’anno 1970, trionfasse il verde idilliaco di Woodstock che si dedicava al non scritto e utopico seguito del proverbio: (sulle pietre che rotolano) non si forma muschio. Ebbe più successo lui che non tutti e tre insieme, i film che nello stesso anno videro protagonisti prima gli Stones e poi il più Rolling di loro, Jagger.
Oltre a Gimme Shelter, che si assumeva appunto il compito intollerabile e soprattutto impossibile di dire una o la verità del rock, ci furono Sadismo (Performance, di Donald Cammell e Nicholas Roeg, anche fotografo) e I fratelli Kelly (Ned Kelly, di Tony Richardson). Un affascinante nero pop-rock dove Jagger era un’ex-rockstar in un intrigo loseyano con James Fox, con maschere e lustrine e prodezze della cinepresa di Roeg che seguiva un proiettile nel suo tragitto; e un meno affascinante «western australiano» in forma di ballata, ma rigorosamente non-musicale.
Ma tutto questo era ancora molto lontano, Woodstock e Altamont dovevano ancora nascere, mentre Godard si spostava a Londra per portare la peste del cinema. E Sympathy for the Devil – il film – porta la peste nel rock. Le pietre sono ferme; o comunque rotolano nel vuoto (in studio), se non a vuoto. Nello studio di registrazione, la forma piano – sequenze (quattro o cinque riprese di circa dieci minuti l’una, più altri stacchi più brevi) contiene perfettamente il lavorìo del rock, mostra con esattezza proprio i pezzettini, gli attacchi, gli stacchi di cui è composto. La facilità del roll, verrà dopo, magari in concerto o al suono del disco. Ora, è con fatica che l’inizio di «simpatia per il diavolo» viene provato e riprovato, senza alcuna compattezza possibile.
Altri piani – sequenza planano in mezzo: una lunghissima Intervista con Anne Wlazemski Eva – democrazia in un prato londinese con la troupe che insegue tra fronde militanti del Black – Power che leggono testi sacri (anche Le Roi Jones sul blues…) in un cimitero di macchine e si armano e stuprano e uccidono donne bianche (per ultima la Wlazemski stessa), fascisti in una porno – libreria con panoramica incessante sulle copertine (ma allora era solo soft il porno mostrabile), e infine – più pianosequenza di tutto il resto – una voce fuoricampo che legge brani di un romanzetto porno, e il Mein Kampf, e altro.
Il tutto unito o diviso da cartelli giochi – di – parole divertenti e d’epoca (cinémarxisme…) come gli slogan scritti sui muri di Londra dalla Wlazemski in flash. Tra gli altri, quell’under the Stones there is the sand che ritroveremo in tedesco tanti anni dopo nella Sanders. Sulla sabbia del mare c’è la gru del grande cinema 35 mm manovrata dal militanti del black power non per «riprendere» ma solo per «prendersela» issandoci sopra la Wlazemski immolata e la cinepresa stessa con bandiere rosso-nere contro il sole.
Ma ciò che più colpisce, nelle lunghe sedute in presa diretta, è la realtà di gruppo degli Stones. Il ruolo subalterno di Charlie Watts alla batterla, schernito da Richards. Quel biondastro isolato e assolutamente muto, come indifferente, che si riconosce poi di colpo per Brian Jones e si capisce che è già morto. L’Immagine di principe di Mick Jagger, l’unico che palesemente si diverte all’idea che lo stanno anche filmando, il più grande narciso del rock.
La tensione, i silenzi; la strana intesa che fa emergere come presenza importantissima il diabolico Keith Richards quando sorride a Jagger un attimo (Jagger – Richards il marchio…). One plus one: è l’altro titolo con cui il film è conosciuto. Battuta dialettica, o il gruppo rock come somma di singoli e soli. O anche Godard che aggiunge all’inscindibilità finale del suono (la sua «unicità» anche dimensionale) le evidenti ambiguità del mostrare. Alla fine, in ogni caso, il coretto è quello che ricordiamo nel disco. E qualcuno (poi) verrà: i trecentomila di Altamont, i milioni di questo tour europeo, etc…
Mentre finisce con i titoli di coda (di nuovo i loro nomi) il film comincio a ricordarlo: Godard anticipa tutti mostrando il mixage (Mixing…) e la sovrapposizione di tempi che formeranno non il cinema ma tutto lo spettacolo e la vita quotidiana stessa di oggi.
Chi sa se «la Rai» lo comprerà.
Quando gli produsse Lotte in Italia ci furono molti problemi. Per i Rolling sembrano essercene ormai molti di meno; rollano sempre di più, sul velluto, ordinati e previdenti. Iniziano sempre con Under my thumb, sicuri di avere in potere automaticamente il pubblico, sotto il loro pollice e non viceversa. Invece di Godard, a mixarli ora c’è Mixer dopo i mondiali (Minà Pende Tardelli Tognazzi Rossi Eleonora Giorgi Sordillo Lizzani Corbucci Milo Gentile…).
A proposito di Rai, che avevo iniziato a Genova un programma della Terza Rete su un concerto di Lou Reed proprio con un gioco su un altro dei loro titoli, un altro fondamentale (con «simpatia per il diavolo» e il sintomatico «dammi protezione, dammi rifugio», un salto enorme rispetto al «gimme some loving» degli Spencer Davies) e il più famoso: (I can get no) Satisfaction.
Cinque minuti sul corpo rallentato di Lou Reed, lo stadio di Marassi casualmente adiacente al carcere di Marassi, la folla, etc. E sopra appunto Satisfaction, in un’esecuzione dal «vivo», ma rovesciata, cioè registrata dall’inizio alla fine, riconoscibilissima ma parlata in una lingua sconosciuta, un po’ angosciosa nell’inseguire affannosamente l’inizio. Come spiegava maldestramente, dopo, un testo maldestro, forse così il rock poteva rovesciarsi, trovare davvero soddisfazione magari in un prato, togliendo quella negazione, quel no. Il programma – per un motivo o per l’altro; per motivi di tempo, in fondo – non l’ho mai finito.
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