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Gli audiolibri non sono «acchiappaclic»

Gli audiolibri non sono «acchiappaclic»

Express Non tutto nell'editoria piò essere un'esca pronta ad attirare gli sprovveduti pesci-lettori. Preoccupa la decisione di Spotify di offrire ai suoi abbonati «premium» 15 ore di ascolto di audiolibri senza costi supplementari

Pubblicato 11 mesi faEdizione del 21 dicembre 2023

Chiunque abbia una minima dimestichezza con il giornalismo contemporaneo conosce l’espressione clickbait, tradotta da noi come «acchiappaclic». Secondo un meccanismo sempre più diffuso, i titoli rinunciano al loro ruolo di utili condensati degli articoli cui fanno riferimento e funzionano soprattutto come esche pronte ad attirare gli sprovveduti pesci-lettori. La Rete – mai termine fu più appropriato – pullula di queste sollecitazioni spesso ingannevoli che fanno aumentare gli introiti pubblicitari, ma riducono l’autorevolezza di un mestiere assai malmenato, ma cruciale per la buona salute di una società.

Gli esempi sono innumerevoli, e non solo nelle piccole testate online che cercano di farsi largo a spintoni nelle acque affollate di Internet. Prendiamo un titolo proposto giorni fa dal New York Times, un giornale che, con i suoi quasi dieci milioni di abbonamenti digitali, non ha certo bisogno di fare un uso indiscriminato dell’acchiappaclic: Remember What Spotify Did to the Music Industry? Books Are Next, ovvero «Vi ricordate cosa ha fatto Spotify all’industria musicale? I libri sono i prossimi». C’è di che avere paura: come è stato scritto da più parti (fra l’altro su Rolling Stone), la possibilità di ascoltare i brani musicali in streaming ha arricchito una percentuale minima di musicisti, lasciando sostanzialmente a bocca asciutta tutti gli altri, ben oltre il 90% della categoria. Insomma, a dare credito al titolo, la situazione economica degli scrittori, già tutt’altro che felice, è destinata a peggiorare ancora in modo drastico.

Ora, posto che al peggio non c’è mai fine, le cose non stanno esattamente così – o perlomeno, non nell’immediato, dato che si sta parlando solo di audiolibri, un segmento in crescita costante e acceleratissima nel mercato editoriale di tutto il mondo, ma ancora decisamente marginale: negli Stati Uniti gli audiolibri rappresentano circa il 10% del settore, in Italia la percentuale stimata è l’1,4% dell’editoria trade, esclusi cioè i testi scolastici e le pubblicazioni a carattere amministrativo.

Lo spiega del resto l’autrice dell’articolo (un guest essay, vale a dire un contributo esterno), Kim Scott, che dopo avere ricoperto posti di rilievo presso Google e Apple, si è data alla scrittura, andando ad arricchire lo scaffale già sovraccarico di testi «ispirazionali» con libri intitolati Radical Candor: Be a Kick-Ass Boss Without Losing Your Humanity («Trasparenza radicale: Diventare un capo di successo senza perdere la propria umanità») e (di prossima uscita) Radical Respect: How to Work Better Together («Rispetto radicale: come lavorare meglio insieme).

A preoccupare Scott è in particolare la decisione, messa in atto da Spotify all’inizio di novembre sul mercato americano, di offrire ai suoi abbonati «premium» 15 ore di ascolto di audiolibri senza costi supplementari: un modello non molto diverso da quello già applicato in Italia da Storytel o Audible, ma sciagurato per gli autori, sostiene l’ex manager, un po’ perché saranno pochi i nuovi abbonati attratti dalla proposta, un po’ perché in base agli accordi stipulati da Spotify, i creators saranno pagati per intero solo quando il libro viene ascoltato fino alla fine. Reprimendo il malevolo sospetto secondo cui Scott teme che le sue opere siano meno avvincenti di quello che lei vorrebbe, è vero che, se si applicasse la stessa regola ai libri di carta, molti scrittori sarebbero condannati alla morte per fame.

In definitiva, l’idea che per gli audiolibri «gli autori di fascia media sembrano destinati a essere ancora più penalizzati» e che «i ricavi favoriranno il solito 1% degli scrittori» non è azzardata. Ma c’era proprio bisogno di un titolo acchiappaclic?

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