L’avevano fatto sbarcare con un barchino leggero, quel primo giorno, e lui quasi si era dimenticato dei polsi ammanettati, perché le due isole, una di fronte all’altra, gli avevano ricordato casa. O perlomeno il posto dove era nato, che casa sua non sapeva più dire bene dove fosse. A Trieste magari, dove la moglie a quell’ora stava di sicuro portando i bambini a fare un tuffo al bagno Ausonia. La città dove era nato invece si trovava più a sud, su quella striscia di costa dalmata che cambiava bandiera e nomi di continuo, lì c’era una casa dell’infanzia con finestre che guardavano il mare e l’isoletta dove andava in vacanza con i genitori: Brac, che in quei giorni bisognava chiamarla Brazza.

Perché proprio ora ti è venuto in testa quest’uomo? Questo ammanettato al confino che non è nemmeno dei più famosi, con il caratteraccio che aveva? È per via del fatto che stiamo attraccando sull’isola e tu hai nostalgia del mare di casa tua? No, è che di Mario Maovaz conosco i nipoti, ho mentito.

NE CONOSCO invece la tomba al cimitero di Trieste: 1945, 28 aprile. Antifascista e europeista, per questo fucilato. Un fucilato dell’ultima ora. Che a essere nati in Italia, e non a Trieste, l’avrebbe scampata. Perché il 28 aprile l’Italia era già liberata, ma non Trieste, che dovette aspettare i neozelandesi in corsa per battere sul tempo i titini. Arrivarono tutti il 1° maggio, troppo tardi. Così Maovaz era un caduto sulla coscienza di quella città che era Italia ma non lo era. E ora condivide il cimitero con Marcello Guida, finito a Trieste in piena guerra fredda, in piena P2, perché negli anni Ottanta sul confine a est finivano quelli come lui: chi era stato aguzzino a Ventotene, chi aveva fatto il lavoro sporco negli anni di piombo.

Che c’entra Maovaz con Guida? Niente, ma sono stati a Ventotene insieme. Confinato uno, direttore della colonia l’altro.

Mario Maovaz

Mario Maovaz quel giorno scende dal barchino con ancora i polsi ammanettati e sorride a testa bassa. Qualcuno avrebbe detto che gli veniva da ridere per essere stato spedito al confino, lui uomo di confini che aveva familiarità con i turchi, i russi di Odessa, gli slavi del sud naturalmente, ma pure con tutti gli ex figli dell’Austria-Ungheria, con i marinai soprattutto.

Brac-Brazza, sorride. Sull’isola Mario si era organizzato, lavorava in biblioteca. Aveva le sue convinzioni, ma i rinchiusi gli sembravano tutti troppo seri per discuterci, forse perché erano molto più giovani di lui e avevano fisici pesanti. Erano uomini colti e parlavano con gravità, alcuni erano astemi. Lui invece aveva cinquantasette anni, un corpo da atleta, era dalmata, triestino, mazziniano. Era capace di trovare libri improbabili e proibiti, leggeva sette lingue anche se si ostinava a parlare in dialetto triestino.

Mario prendeva un panino alla mensa e si chiudeva a mangiarlo in biblioteca. «Go da far» ringhiava, usando i libri come scusa per schivare i gruppi, le fazioni, le consorterie. Però i confinati lo ascoltavano. Leggeva Il Piccolo, perché sulle cose che accadevano a est il quotidiano di Trieste la sapeva più lunga, aveva rapporti migliori con i servizi.

Sull’isola Il Piccolo arrivava senza problemi perché il suo fondatore, Teodoro Meyer, all’anagrafe Biniam David Vita, ebreo e massone, da anni ogni settimana prendeva il caffè a Roma con il Duce. Maovaz studiava le pagine fino ai necrologi, che potevano contenere frasette rivelatrici. Lui dava le notizie e gli altri facevano progetti.

Tra le beghe di Colorni, di Spinelli, di Rossi, non ci voleva entrare. Eppure il Manifesto l’aveva firmato, con i suoi modi spicci, un guizzo e via: non mi ci fate pensare due volte! Maovaz non sarebbe andato a genio a uno come Marcello Guida, che vestiva in camicia bianca e cravatta scura, uno con il doppio mento e i capelli lisciati dalla brillantina.
Forse presto a Ventotene gli inaugureranno una targa, mi viene da pensare. A Marcello Guida, stimato direttore che seppe eseguire gli ordini, fino all’ultimo. Ventotene-Milano-Trieste. Sono questi i tempi nuovi. Altro che padri della patria. Altro che Mario Maovaz, dimenticato a Trieste. Ventotene gli ha intitolato la biblioteca, ma i libri non vanno più di moda, leggere è raccomandato solo alle scuole elementari.

UN GIORNO MAOVAZ era andato alla mensa degli anarchici e un veneziano che aveva la metà dei suoi anni gli aveva parlato del Manifesto. L’aveva mica firmato anche lui? Maovaz aveva sorriso e si era versato da bere. Allora stava con quelli che pensavano alle parole e non all’azione? Lui non stava con nessuno. Ma era nato in una città che era greca e veneziana, austriaca, slava e italiana. Quindi come si poteva stare a parlare di una sola nazione, una sola lingua, un popolo, un sangue? Roba da provinciali. Una guerra e tutto saltava in aria. Era meglio pensarci per tempo, fare come le isole, no? Quello non aveva capito. Fa niente, Maovaz gli aveva versato da bere.

Come fanno le isole? Brac l’isola dalmata di Maovaz bambino. Ventotene l’isola dei confinati, ma anche dei sorveglianti che avevano fatto così bene il loro lavoro da venire promossi nella nuova Repubblica. Cosa intendeva dicendo che bisognava fare come le isole? Le isole, o almeno alcune, sono come le idee: danno riparo agli uomini. Danno asilo agli assassini e agli evasi, ai generali megalomani, agli stranieri, ai naufraghi e agli inquieti, ai bambini ribelli, ai malati in quarantena e ai pittori visionari, alle regine malinconiche. A tutti quelli che la società rigetta in mare. Le isole sono eterotopie, diceva quel filosofo francese ossessionato dalle carceri panottiche come quella sull’isola: luoghi differenti da tutti gli altri, che paiono incarnare una contestazione dello spazio in cui viviamo.

Maovaz l’avrebbe detta più semplice: le isole sono solitarie, vivono di vita autonoma, eppure anche le più isolate fanno parte di arcipelaghi, sono in dialogo tra loro. E questa, pensava, è una buona metafora di come dovrebbero funzionare i paesi, o perlomeno noi esseri umani.

«Gita al Faro», un festival oltre i confini

Pubblichiamo il racconto inedito «Arcipelaghi» che Federica Manzon ha scritto in occasione del festival letterario «Gita al Faro» (svoltosi a Ventotene dal 21 al 24 giugno). Il festival è diretto da Loredana Lipperini, ideato e organizzato da Francesca Mancini, Laura Pesino e Vania Ribeca. Federica Manzon è scrittrice, giornalista culturale, lavora nell’editoria. Tra i suoi ultimi romanzi «La nostalgia degli altri» (Feltrinelli 2017), e «Il bosco del confine» (Aboca Edizioni 2020). Vive tra Milano e Trieste.