L’attrice britannica Glenda Jackson ci ha lasciati. Aveva 86 anni. È stata tra i pochi interpreti capace di conseguire un «triplete», anzi un «treble» come dicono loro, perché ha vinto i tre massimi riconoscimenti possibili per un’attrice: Oscar, Tony, Emmy ossia miglior protagonista al cinema, in teatro, in televisione. Eppure, non era una predestinata, non veniva da una famiglia di intellettuali. Tutt’altro. Glenda May Jackson era infatti nata a Birkenhead nel maggio 1936, da una famiglia decisamente povera, quattro figli, lei la più grande, padre muratore e madre che alternava l’andare a servizio con il lavoro di cassiera al supermercato. Modesta anche la casa con un bagno, esterno. Ben presto aveva dovuto aiutare lavorando prima presso una farmacia, in seguito altri modesti impieghi di giorno. Ma teneva la sera per sé coltivando la passione per il teatro. L’unico suo rapporto con il cinema le era derivato dal nome che le aveva voluto dare mamma, Glenda, come Glenda Farrell, attrice statunitense di qualche successo nella metà del secolo scorso.

GLENDA È BRAVA, infatti vince una borsa di studio che la porta diciottenne a Londra a seguire i corsi del Rada, che non è cosa da poco trattandosi della Royal Academy of Dramatic Art. Poi per qualche tempo tutto sembra arenarsi. Non riesce a superare l’ammissione alla Royal Shakespeare Company, campa di lavoretti come telefonista e barista, nel frattempo si è sposata. Poi la svolta. Finalmente nel 1963 entra a far parte della RSC dove Peter Brook le affida il ruolo di Charlotte Corday nella versione di Peter Weiss del Marat/Sade, interpretazione che Glenda porterà anche al cinema sempre con Brook. Subito dopo appare nei panni di Ophelia nell’Amleto di Peter Hall e per l’occasione il critico Penelope Gilliatt dichiara «Jackson è l’unica Ophelia che abbia visto pronta per recitare anche la parte dello stesso principe di Danimarca».L’intera essenza dell’imparare le battute sta nel dimenticarle, in modo da far sembrare che tu le abbia pensate in quel momento. (Glenda Jackson)
Da allora sono solo successi. Ma lei a questo proposito è quasi indisponente: «Non ho mai avuto una speciale ambizione per la recitazione; so soltanto che è meglio stare in scena che dietro al bancone della farmacia». E non sa cosa sia il divismo. Ken Russell, con cui lavora ripetutamente, le affida il ruolo di protagonista in Donne in amore. Candidatura e vittoria all’Oscar nel 1971. Ma lei non partecipa alla cerimonia. Lavora, un film dopo l’altro: L’altra faccia dell’amore; Domenica maledetta domenica; Maria Stuarda; Triple Echo; Un tocco di classe, per cui vince un altro Oscar, sempre senza presentarsi a ritirarlo. È fatta così.

La redazione consiglia:
Peter Brook, un pensiero etico per reinventare il teatroE DOPO un ventennio di successi cinematografici, teatrali, televisivi nei primi anni ’90 decide di ritirarsi dalle scene. Vuole cimentarsi con la politica. Lei da sempre orientata verso il laburismo, manifestante a suo tempo contro la guerra del Vietnam, così come fiera oppositrice della Thatcher si candida per il parlamento britannico. Viene eletta e rimane in parlamento ininterrottamente per oltre venti anni, sino al 2015. Ricopre anche alcune cariche, ma la sua verve e il suo approccio non sono mai concilianti. Strapazza Tony Blair che con il suo sodale George W. Bush si fionda in una guerra insensata e criminale. Fa sentire la sua voce per contrastare i venti di Brexit che vorrebbero allontanare il Regno Unito dall’Europa. Battagliera ma sempre lucida anche quando rinuncia a candidarsi perché comincia a sentire il peso dell’età. Ha così modo di fare una tardiva rimpatriata interpretativa, così forse anche il pubblico più giovane potrebbe riscoprirla.

ECCO, quindi, il film tv Elizabeth is Missing e poi Secret Love di Eva Husson nel 2021. Quest’anno dovrebbe arrivare sugli schermi la sua ultima interpretazione, The Great Escaper di Oliver Parker in cui fa coppia con l’amico Michael Caine, conosciuto nel 1975 sul set di Una romantica donna inglese di Losey.