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Giuseppe Berto, un n Mezzogiorno fantascientifico sfugge al Progresso

Giuseppe Berto, un n Mezzogiorno fantascientifico sfugge al ProgressoGiuseppe Berto nel 1971 in una foto dello studio Mannini Roma, coll. priv.

Novecento italiano Anno 2160, una rabberciata astronave deve portare su Saturno gli ultimi «terroni»: «La fantarca» di Giuseppe Berto (1965), un romanzo visionario condito di insolita ironia. Lo ripubblica Neri Pozza

Pubblicato 2 mesi faEdizione del 15 settembre 2024

La casa editrice Neri Pozza continua nella meritoria, sistematica riproposta dei libri di Giuseppe Berto. È ora la volta del romanzo La fantarca («Bloom», pp. 160, € 18,00), arricchito da una prefazione di Diego de Silva. Uscito originariamente nel 1965 presso Rizzoli, corredato dalle illustrazioni di Herbert H. Pagani, il volume sembra rappresentare un momento interlocutorio nella produzione dell’autore veneto, ponendosi cronologicamente tra lo splendido approdo del Male oscuro (’64), considerato il suo capolavoro, e La cosa buffa (’66), entrambi pubblicati per gli stessi tipi. Si tratta dunque di un singolare mutamento di percorso rispetto alle tematiche classiche della narrativa bertiana, orientata a perseguire un’azione di approfondimento introspettivo, impostasi dopo la fase neorealista, annoverante titoli come Il cielo è rosso (Longanesi, ’47), Le opere di Dio (Macchia, ’48) e Il brigante (Einaudi, ’51). Fu il conterraneo Giovanni Comisso ad adoperarsi per la pubblicazione del suo libro d’esordio, il cui titolo originale La perduta gente, di matrice dantesca, venne reputato da Leo Longanesi vagamente iettatorio e cambiato in extremis.

Non mancano suggestioni di stampo americano, a cominciare da quella di Hemingway (ma si ricordino anche Faulkner, Sherwood Anderson, Saroyan, Steinbeck), verso il quale Berto nutrirà – al di là delle dichiarazioni di facciata – sempre un’incondizionata ammirazione, culminata nell’ostentazione di una folta barba dopo la scomparsa dell’autore di Festa mobile (sulla copertina della raccolta di racconti longanesiana Un po’ di successo campeggia un ritratto fotografico, realizzato in bianco e nero, con tanto di sguardo torvo e mezzaluna barbuta rilevata in oro). Ma è già presente, in nuce, quell’inquietudine religiosa, spesso sconfinante nell’imprecazione blasfema, oscillante «fra cristianesimo ed esistenzialismo» (Zanzotto), che sfocerà nei dialoghi della Passione secondo noi stessi (Rizzoli, 1972) e nella Gloria (Mondadori, ’78), in cui si ripercorrono le vicissitudini descritte nei Vangeli sotto la visuale sacrilega di Giuda. Questo romanzo, considerato il suo ideale testamento, strappò all’autore la seguente ammissione: «Io tenderei, come temperamento, a identificarmi in Cristo, ma poi ho scoperto che c’è uno più disgraziato ancora. Non posso stare che dalla sua parte».

Tale fermento affabulatorio è tipico dell’estrema fase creativa di Berto, altalenante tra la dimensione psichiatrica ed ecologica di Oh, Serafina! (il sottotitolo del romanzo è Fiaba di ecologia, di manicomio e d’amore), una delle prove meno riuscite, licenziata da Rusconi nel 1973, e la rielaborazione romanzesca di Anonimo veneziano, accolta nella Bur nel ’75 a distanza di qualche anno dal dialogo eponimo diffuso da Rizzoli dopo il successo ottenuto nel 1970 con la pellicola di Enrico Maria Salerno (Berto collaborerà con l’attore e regista alla sceneggiatura, per lo più nel rifugio cortinese di Marta Marzotto, creandosi una discreta credibilità in ambito cinematografico).

È significativo che nella bandella di Oh, Serafina! l’autore moglianese avesse riportato la seguente provocatoria informazione: «Ho scritto questo libro perché avevo bisogno di soldi». E all’insegna del paradosso è interpretabile tutta la sua opera, come testimoniato dalla biografia Vita scandalosa di Giuseppe Berto di Dario Biagi, pubblicata da Bollati Boringhieri nel 1999. «Aveva tutto per essere un vincente: talento, fascino, simpatia; ma volle, fortissimamente volle, iscriversi al partito dei perdenti», si legge nella premessa.

Si considerino, in tal senso, le prese di posizione politiche e il fatto che, a differenza di molti autori un po’ svagati (il paragone con il pur grandissimo Guido Piovene e la sua Coda di paglia è d’obbligo), Berto non arrivi mai a rinnegare le imprese in orbace, pur dichiarandosi anarchico. Si rimanda al riguardo a Guerra in camicia nera (Garzanti, 1955) e alla raccolta postuma di racconti La colonna Feletti (Marsilio, ’87).

La fantarca è un romanzo fantascientifico sui generis, pervaso di un’ironia e uno humour atipici, connaturati a un estro letterario che ha pochi referenti nel contesto coevo. In parte ambientata a Capo Vaticano, dove lo scrittore aveva una casa che domina da un promontorio a picco sul mare un panorama mozzafiato, la vicenda descrive le disavventure del comandante Francesco Torchiaro detto Ciccio che, nell’Anno Domini 2160, deve accompagnare in una vecchia astronave chiamata Speranza n. 5 gli ultimi 1347 «terroni» superstiti su Saturno, dove potranno riprodursi a piacimento. Sorta di non troppo futuribile Arca di Noè, l’astronave, in partenza da Vibo Valentia, accoglie gli animali e gli oggetti più disparati, compresi maiali ed enormi damigiane.

Il fine è quello di risolvere l’annosa questione meridionale attraverso le iniziative promosse dal comitato della Felice Evacuazione delle Aree Depresse, azzerando il numero di «terroni» presenti in loco. La terra è infatti suddivisa in due blocchi, con evidente richiamo alla Guerra Fredda, governati dalla tecnologia e da un ideale di progresso che in realtà rappresenta un subdolo tentativo di omologazione (si vedano le orwelliane indicazioni provenienti dagli altoparlanti presenti nell’astronave). Il vocabolo pasoliniano non è casuale, in quanto Berto, pur partendo da un retroterra culturale contrapposto a quello dell’autore degli Scritti corsari, perverrà ad analoghe prese di posizione eretiche.

Tra sabotaggi e ammutinamenti, cambi di rotta e atterraggi di fortuna, l’avventura si snoda coniugando esiti visionari e intermezzi umoristici atti a rivelare una spiccata perizia stilistica nonché qualche forse non casuale affinità con Cancroregina, romanzo breve di Tommaso Landolfi edito nel 1950 da Vallecchi. Si cita «il famoso campo per prigionieri di Hereford, Texas», dove lo scrittore passò due anni in segregazione, in compagnia di Dante Troisi, Gaetano Tumiati e Alberto Burri, dedicandosi alla stesura delle sue prime opere narrative.

Berto d’altronde ha sempre rivendicato una forte predisposizione a investigare la realtà, come traspare dall’Inconsapevole approccio, lungo saggio del 1965 anteposto alla ristampa delle Opere di Dio, laddove si descrive in terza persona e riporta numerosi stralci di stroncature alla propria opera, in una sorta di delirio autolesionistico che, non di rado, ammorba anche i testi maggiori. Non è immune da tale retaggio Il male oscuro, titolo ricavato dalla Cognizione del dolore di Gadda, incaricato di scriverne la prefazione (il tentativo abortito, poi trasformato in recensione radiofonica, è leggibile nella ristampa del chef-d’œuvre di Berto, confluita negli Oscar mondadoriani nel 1979).

Anche quando risulta meno evidente, l’elemento autobiografico è fondamentale nell’economia dell’opera bertiana. Si vedano, nella Fantarca, non solo i riferimenti topografici, ma anche quelli concernenti le frequentazioni calabresi, come avverte il succitato Dario Biagi: «Sulla sua astronave, la Speranza n. 5, si divertì a caricare una folla – meglio una fauna – di personaggi locali, amabili, pittoreschi, molesti». Il libro alterna capitoli in prosa ad altri declinati in forma di dialoghi, seguendo un andamento capriccioso e ondivago che tuttavia non penalizza la struttura romanzesca. Roman Vlad ne trasse un’operetta musicale, prodotta dalla Rai, avvalendosi del libretto scritto dallo stesso Berto. Alla luce delle iniziative culturali attuali, questa sì, avverte il prefatore, è mera fantascienza.

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