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Giudici all’opposizione, un errore di prospettiva

Toghe dei giudici alla cerimonia di inaugurazione dell' anno giudiziario a Roma foto Filippo Monteforte/AnsaToghe dei giudici alla cerimonia di inaugurazione dell' anno giudiziario a Roma foto Filippo Monteforte/Ansa

Opinioni Nella quotidiana vita giudiziaria, diversamente da quanto appare, è tutt’altro che raro rinvenire sentenze favorevoli agli interessi delle maggioranze

Pubblicato circa un'ora faEdizione del 20 novembre 2024

I cardini dello Stato di diritto – è sotto gli occhi di tutti – sono in grave crisi.

Il principio di legalità – intesa come il primato della legge, quale espressione della volontà della maggioranza liberamente espressa secondo i meccanismi della democrazia rappresentativa – viene gravemente svuotato di senso laddove s’intenda per legge solo quella in senso formale. Sono «legge», e dunque paradigma di legalità, tutte le fonti giuridiche che disciplinano ogni singola fattispecie concreta: dalla regolazione europea e/o internazionale fino alla normazione secondaria. Naturalmente ciò comporta un’attività ermeneutica inevitabilmente complessa, chiamata a dirimere le dispute interpretative per la individuazione della fonte prevalente in sede di applicazione al caso concreto.

Ciò significa che la volontà della maggioranza parlamentare trova un limite invalicabile nella normazione di rango superiore – costituzionale, europeo o internazionale – alla legge formale. Violando quel limite, la manifestazione della maggioranza espressa nella legge formale viola la legalità.

Ciò nondimeno, la regolazione della vita associata, pur con il limite richiamato, resta di prioritaria spettanza della legge. E questa non può essere svuotata di effettiva capacità disciplinare, in nome di una prospettiva «sostanzialistica», che, invocando un «buon senso» soggettivo – implicante il diritto a non rispettare quella ritenuta ingiusta (richiamando di volta in volta, a seconda del proprio comodo, la nobile posizione di Antigone) – considera che la legge non sia «più di moda», non «conti più», dovendo essere sostituita dalla «sapienza» del giudice.

È così che entra in gioco l’altro principio cardine dello Stato di diritto, quello di separazione dei poteri. Il quale significa che unicuique suum, e cioè che il sistema democratico si fonda sulla divisione, e sul bilanciamento e controllo reciproco, dei poteri. Quello legislativo (e/o amministrativo) non può invadere il terreno proprio del giudiziario. A sua volta, quello giudiziario, non può invadere il terreno proprio del legislativo (e/o amministrativo). Pertanto, dentro i confini dello Stato di diritto democratico, un legislatore non può pretendere che il giudice non applichi le fonti superiori alla legge. Ma un giudice non può consentire che venga violata la legge, anche se ad opera di una maggioranza.

Se ne consegue, in conclusione, che, per il rispetto della separazione dei poteri, spetta al giudice – e non al legislatore – stabilire, di volta in volta, quale sia il paradigma di legalità applicabile alla questione sottoposta alla sua delibazione. Al tempo stesso, però, per il rispetto del medesimo principio, al giudice è precluso di violare la legge, sia pur in nome della sua personale, più «virtuosa» (in via presunta e sedicente), capacità di decidere la controversia sottoposta alla sua delibazione, in spregio del paradigma normativo di riferimento.

Purtroppo, viviamo il tempo, desolante e disperante, in cui l’un potere e l’altro si esibiscono in un avvilente, sconcertante e dannosissimo sfoggio di potenza muscolare. E noi siamo costretti ad assistere, disarmati, da un lato, ad esternazioni di (anche eminenti) esponenti politici gravemente compromettenti la tenuta dei principi di legalità e di separazione dei poteri. E, dall’altro, ad una giurisprudenza che, di regola – fatte salve alcune virtuose eccezioni che assurgono agli onori della cronaca, pur rappresentando la manifestazione di un orientamento certamente non maggioritario -, nel decisum sacrifica i diritti delle minoranze. In altre parole, nella quotidiana vita giudiziaria, diversamente da quanto appare nell’informazione mainstream, è tutt’altro che raro rinvenire sentenze in cui i giudici decidono in modo da consentire agli interessi delle maggioranze (di ogni specie e tipo, come quelle dell’assemblea di un’associazione, o quelle degli organi delle istituzioni rappresentative) di essere soddisfatti prevalendo su quelli delle minoranze, in nome della loro forza numerica, anche contra jus e talora persino senza possibilità di rimedi giurisdizionali, così finendosi per mortificare le tante, virtuose, battaglie civili per il rispetto di diritti inviolabili delle minoranze di ogni specie ormai giuridicamente riconosciuti: dai migranti, ai professanti religioni diverse, ai componenti della comunità Lgbtqia+ e altre ancora.

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