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Gioioso Frankenstein musicale tra primedonne e conti gaudenti

Gioioso Frankenstein musicale tra primedonne e conti gaudenti«Les Contes des Hommes» – foto di Brescia e Amisano/La Scala

A teatro Torna alla Scala «Les Contes d’Hoffmann» di Jacques Offenbach per la regia di Davide Livermore

Pubblicato più di un anno faEdizione del 18 marzo 2023

Torna al Teatro alla Scala Les Contes d’Hoffmann di Jacques Offenbach, a undici anni dall’edizione memorabile con la regia di Robert Carsen del gennaio 2012. Un allestimento, che, per ragioni che saranno chiare fra poco, dialogava genialmente con l’edizione ancor più memorabile del Don Giovanni di Wolfgang Amadeus Mozart che Carsen aveva ideato per l’inaugurazione di quella stessa stagione scaligera un mese prima. Già della prima dell’opera nell’attuale allestimento di Davide Livermore, con la direzione di Frédéric Chaslin, andata in scena il 15 marzo, il pubblico si è trovato di fronte a un’esperienza inconsueta e spiazzante di spettacolare trovarobato. Un’esperienza che si esplica su più livelli.

PER PRIMA cosa Les Contes d’Hoffmann in sé sono un esempio di trovarobato musicale derivante dagli scartafacci estratti dai bauli di Offenbach, morto prima di portare a termine l’opera, sopravvissuta al compositore nella forma di un corpo disarticolato e privo di rifiniture. Di conseguenza Les Contes d’Hoffmann che ascoltiamo e vediamo a teatro sono un esempio da manuale di trovarobato filologico che articola e rifinisce quegli scartafacci in edizioni che pretendono ciascuna di essere quella vera e definitiva, ma in realtà compongono un’opera che esiste solo nella mente dei filologi. È quello che si può dire anche dell’operazione fatta da Chaslin, che accantona la «cosiddetta edizione «definitiva» di Kaye e Keck (2009), fonde l’edizione di Choudens (1887-1907) e quella di Oeser (1976), che poi dirige con piglio asciutto, senza indugiare troppo sui colori orchestrali e sottolineando gli aspetti tradizionali più che quelli sperimentali della partitura.

Brillano la voce umbratile di Eleonora Buratto e quella scura di Vittorio Grigolo

Insomma quello che il pubblico scaligero ascolta in questi giorni è un frankenstein musicale in sedicesimo, con l’aggiunta che il libretto di Jules Barbier e la partitura di Offenbach sono già una specie di frankenstein (o ancora di trovarobato) sfacciatamente mozartiano: il protagonista Hoffmann è innamorato di una primadonna, Stella, che al presente è in scena con un «capolavoro» di Mozart; quando Nicklausse, giovane assistente di Hoffmann, entra nella taverna di Luther, canticchia la melodia con cui Leporello fa il suo ingresso nel Don Giovanni; Stella è per Hoffmann un essere triplice, «trois drames dans un drame», fusione delle tre donne amate dal compulsivo Hoffmann nel passato, rispettivamente un soprano leggero (Olympia), un soprano lirico (Antonia) e un soprano drammatico (Giulietta), come Zerlina, Donna Anna e Donna Elvira ancora in Don Giovanni.

INFINE l’allestimento dei Contes d’Hoffmann al Piermarini è uno splendido esempio di trovarobato scenico cui Livermore, Giò Forma (scene) e Gianluca Falaschi (costumi) sono stati costretti dall’improvviso taglio dei fondi pubblici alla Scala e di conseguenza alla loro produzione, spingendo la cifra grandiosa ormai riconoscibile di questo trio ad avventurarsi fuori di sé, mettendo forzosamente in pausa un’idea di opera che spesso aspira ad essere cinema, aiutata da enormi ledwall, fondali in SGI a cui si integrano oggetti di scena classici, per ritrovare una sorta di teatro delle origini. Teatro dove tutto è analogico, dove di necessità (leggasi mancanza di fondi) si fa virtù e la drammaturgia viene risolta con oggetti scenici di risulta, fondali di stoffa su cui si proiettano ombre (quelle create da Controluce Teatro d’ombre, per la prima volta alla Scala): insomma per ritrovare l’antico fanciullesco vaudeville, che del mélodrame e dell’opera borghese ottocentesca è l’antenato.
Nel cast brillano la voce umbratile e liricissima di Eleonora Buratto (Antonia), quella squillante di Federica Guida (Olympia), quella fresca di Francesca Di Sauro (Giulietta) e quella scura di Vittorio Grigolo, che mette il suo istrionismo al servizio di un personaggio (Hoffmann) che Livermore immagina come un campione di ambiguità; a tratti sbiadito il Nicklausse di Marina Viotti.

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