Una gigantesca carota che, con un gruppo di minacciosi ortaggi fuori misura, prende il potere e caccia il principe legittimo dal suo regno, grazie a un sortilegio che imbambola corte e opinione pubblica, fino alla clamorosa rivolta finale. Argomento surreale, venato di satira politica, che curiosamente si fa raffinato- quanto involontario – specchio deformante dell’attualità politica francese, visto che l’Opéra di Lione ha presentato Le Roi Carotte di Jacques Offenbach, mai più udito per tutto il XX secolo, sabato scorso, alla vigilia del temutissimo ballottaggio elettorale.

 
La bizzarra vicenda del Re Carota prende le mosse da un racconto di E. T. A. Hoffmann, rielaborato da Victorien Sardou e messo in musica da Offenbach nel 1872 per il Théâtre de la Gaîté di Parigi, nella forma dell’opéra féerique: gigantesca macchina spettacolare con mirabolanti scenografie, numeri, cambi continui di centinaia di costumi, per una durata di sei ore, con scene acclamatissime come la nascita degli ortaggi giganti, il palazzo del re Carota, il viaggio a Pompei completo di eruzione, il regno degli insetti. Un successo travolgente, per una Parigi che dopo la disfatta del 1870 aveva molta voglia di ridere, e centinaia di repliche, con la successiva riduzione dell’opera di tre atti di circa tre ore.

 
Per ricreare oggi la fantasmagorica opera di Offenbach, corredata di parecchia splendida musica (specie nei pezzi d’assieme), Laurent Pelly – forse più felice specialista delle opere di Offenbach di oggi – si è avvalso della calibrata drammaturgia di Agathe Mélinand, adattando i dialoghi parlati e lasciando pressoché intatta la musica della versione breve. La vicenda si sviluppa in un mondo -biblioteca mobile in i cui ministri escono dagli armadi, i giovani festaioli dagli schedari e la quadreria del palazzo cala dal cielo, la principessa prigioniera è chiusa in un immenso cestello bollitore per vegetali, il Vesuvio in una teca da museo e il Re Carota finisce in un enorme passaverdure, dopo la rivolta causata da una crisi alimentare.

 
I passaggi più riusciti sono stati il coro di ubriachezza degli studenti, la grande scena di corte, con l’incontro fra il principe e Cunegonde e poi l’apparizione del Re Carota. Molto ben risolta anche musicalmente (ottimo il coro) la scena di Pompei, omaggio alla moda archeologica dell’epoca, cui fa da contraltare l’ilare scena del treno a vapore, mentre meno ispirato è risultato il quadro degli insetti.

 
Pelly fa valere anche il suo talento di costumista, specialmente nel caso dell’odiosa carota-usurpatore (il bravissimo Christophe Mortagne) e i suoi accoliti. Centratissima la compagnia, specie il genietto Robin-Luron di Julie Boulianne, il simpatico Fridolin XXIV di Yann Beuron, la viziata Cunegonde di Antoinette Dennefeld e la principessa prigioniera di Chloé Briot ; la parte parlata della strega era affidata all’ottima Lydie Pruvot.

 

 

Sul podio il giovane Victor Aviat si è adoperato con gusto per restituire la tavolozza ricchissima e i tanti scarti d’umore proposti da una vicenda frammentaria, ma ricucita in una versione molto adatta al pubblico odierno, che infatti ha festeggiato a lungo e con entusiasmo l’intero cast