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Giochi del significante per dire e non dire il reale

Giochi del significante per dire e non dire il reale

Classici francesi del '900 Ambientato in un’isola sudamericana allegorica dei campi nazisti, «W o il ricordo di infanzia» fu scritto contemporaneamente alla analisi con Jean-Bertrand Pontalis: in una nuova traduzione, da Einaudi

Pubblicato circa 6 anni faEdizione del 30 settembre 2018

Bipartito fin dal titolo, il libro che Georges Perec ha pubblicato nel 1975 dopo una lunga e tormentata gestazione, W o il ricordo d’infanzia (che torna in questi giorni in libreria per Einaudi, nella nuova traduzione di Maurizia Balmelli, prefazione di Andrea Canobbio, pp. 180, euro  18,50), ha una struttura che può sembrare elementare, a confronto con le labirintiche architetture sperimentate pochi anni più tardi dall’autore nella sua opera più nota, La vita: istruzioni per l’uso, o esibite fra la fine degli anni Sessanta e il decennio successivo da altri membri dell’Oulipo.

Si alternano capitoletti scritti in tondo e altri, in alcuni casi un poco più lunghi, in corsivo. I primi propongono, punteggiata da riflessioni metaletterarie, la frammentaria rievocazione di un’infanzia bellica trascorsa prima a Parigi e poi fra le montagne del Vercors, nel Delfinato – morto il padre al fronte nel 1940, la madre, ebrea polacca, affida il figlio a un convoglio della Croce Rossa diretto a sud, prima di essere deportata a Auschwitz, da dove non farà ritorno. I secondi dapprima sembrano promettere un romanzo d’avventura (modello dichiarato: l’amatissimo Jules Verne), ma presto, dopo l’ellissi, segnalata da tre puntini di sospensione fra parentesi, che chiude la prima parte del volume, virano verso la descrizione minuziosa delle leggi e dei costumi di una sperduta nazione sudamericana, appunto W: un’isola della Terra del Fuoco in cui vige l’ideale olimpico e ogni aspetto dell’esistenza è subordinato alle esigenze di un’esasperata competizione sportiva.

Se in principio, nel tono neutro e distaccato del narratore, sembra di poter cogliere un ambiguo fascino per gli interminabili allenamenti, le ingegnose sfide eliminatorie fra villaggi, il complicato sistema di qualificazioni, premi e punizioni, ben presto l’utopia si rovescia in distopia, la ferocia della selezione sportiva è esplicitamente ricondotta a una selvaggia struggle for life, per di più beffardamente complicata da scelte arbitrarie di giudici e governanti.

Fra le numerose fonti letterarie, diligentemente inventariate da Andrea Canobbio, si percepisce soprattutto un’eco di Kafka (Il processo, Nella colonia penale); ma il lettore non deve aspettare l’ultima pagina (dove è citato un brano dell’Universo concentrazionario di David Rousset), né leggere il risvolto di copertina, in cui l’autore ribadisce che le vicissitudini del bambino ebreo e i riti crudeli di W sono «inestricabilmente intrecciati», per rendersi conto che l’isola sudamericana è allegoria dei campi di concentramento nazisti. E che la disumana razionalità dei lager è letta da Perec – con riduzionismo semplicistico, all’epoca corrente – come conseguenza e anzi entelechia del sistema economico capitalista. Cosicché l’enigma del racconto memoriale (non romanzo: il sottotitolo, che manca nella traduzione, è récit) rischia a tratti di rovesciarsi in prevedibile pamphlet.

Eppure W è anche il più autobiografico fra i libri di Perec, fin dalla dedica «Per E», in francese omofono di «eux», «loro»: i genitori la cui morte, in modo assai più nascosto, era il referente traumatico del lipogramma della Scomparsa, il libro del 1969 il cui tour de force, appunto, consisteva nel ricorrere a una lingua amputata della lettera «e».
Anche in W, le pagine più riuscite nascono dalla tensione fra confessione e censura, fra impulso a esibire il trauma e coazione difensiva al suo mascheramento: l’indicibile dell’olocausto e della condizione di orfano può essere espresso, per Perec, solo indirettamente, attraverso lo schermo di una struttura narrativa a puzzle e disseminata di riferimenti culturali (indifferentemente alti o pop), di una scrittura in cui i giochi del significante al tempo stesso evocano e allontanano le ferite del reale; soprattutto, attraverso l’evocazione ipertrofica – è la più tenace costante dell’autore – delle cose, dei più triti oggetti quotidiani, quasi minima e ossessiva ciambella di salvataggio nel naufragio di ogni senso storico e di ogni memoria affettiva.

La cura con Pontalis
Non a caso, la genesi del romanzo si interseca con la cura psicanalitica intrapresa dall’autore, con Jean-Bertrand Pontalis: spesso, i lacerti recuperati da un’infanzia dichiaratamente «senza ricordi» emergono sulla pagina come dalla voce del paziente sul lettino dell’analisi, e molti dubbi aleggiano intorno alla loro autenticità; mentre i barlumi di una quasi aforistica consapevolezza esistenziale sembrano accendersi solo grazie a un’opera maieutica – per esempio questo, struggente, non a caso alla seconda persona e fra parentesi: «(d’ora in poi incontrerai soltanto estranee; le cercherai e le respingerai senza tregua; non ti apparterranno, né tu apparterrai a loro)».

Sono pochissimi i classici del secondo Novecento a godere del privilegio di una triplice traduzione in italiano: uscito per la prima volta da Rizzoli nel 1991 (versione di Dianella Selvatico Estense), W era già entrato nel catalogo Einaudi nel 2005 (il traduttore si celava sotto uno pseudonimo tratto dalla Vita: istruzioni per l’uso, Henri Cinoc); ora, quasi a suggello di una definitiva canonizzazione, torna in veste rinnovata. Ma non (mi) convince. Mi chiedo perché mi lasci tiepido un libro che vent’anni fa, letto in francese, mi aveva appassionato. Della delusione non posso addebitare la colpa alla versione italiana di Maurizia Balmelli, che è scorrevole e nel complesso corretta – pochi gli errori da segnalare (in specie un pasticcio nelle equivalenze fra sistema scolastico francese e italiano, al capitolo XXIX), oltre a qualche sciatteria nella resa dell’enigmistica del significante, peraltro meno frequente che altrove in Perec.

Forse, banalmente, cambia il gusto, personale e collettivo: non tutto l’Oulipo invecchia bene, anche il Calvino combinatorio degli stessi anni può apparire a tratti faticoso e datato. Inoltre, la voga del racconto distopico si è talmente diffusa negli ultimi due decenni da risultare stucchevole perfino retrospettivamente. Ancora, la freddezza descrittiva di Perec non ha di Kafka né la rattenuta violenza sadica, né l’abissale humour noir; l’anonimato degli abitanti di W, ovviamente voluto, corrispettivo della perdita d’identità inflitta ai prigionieri dei lager, non coinvolge il lettore come, poniamo, la complessa articolazione del sistema dei personaggi creato nel 1954 da William Golding nel Signore delle mosche (ancora una possibile fonte di Perec, non citata da Canobbio).

Leggere dopo Sebald
Credo sia un’altra, però, la causa principale di un fastidio che, pur non pretendendo di misurare valori oggettivi, può forse risultare storicamente sintomatico: fra la mia prima e la mia seconda lettura di W, è uscito quello che oggi la critica, unanime, riconosce come il capolavoro della letteratura sull’olocausto «di seconda generazione», Austerlitz. Non meno sperimentale nella struttura, che interpola alla narrazione un materiale fotografico solo in apparenza documentario, il romanzo di W.G. Sebald riesce a costruire una quête memoriale vertiginosa e traumatica, senza facili ricorsi alle simmetrie metaletterarie o alle troppo trasparenti allegorie che oggi possono apparire caduche in Perec.

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