Ghirri, metafisica della duplicazione
A Parigi, Jeu de Paume, "Luigi Ghirri. Cartes et Territoires", a cura di James Lingwood La prima grande retrospettiva di Luigi Ghirri fuori d’Italia: in un allestimento elegante, minimalista, quattordici serie da lui realizzate negli anni settanta, con l’idea di trasformare in luoghi dell’anima set anonimi della realtà
A Parigi, Jeu de Paume, "Luigi Ghirri. Cartes et Territoires", a cura di James Lingwood La prima grande retrospettiva di Luigi Ghirri fuori d’Italia: in un allestimento elegante, minimalista, quattordici serie da lui realizzate negli anni settanta, con l’idea di trasformare in luoghi dell’anima set anonimi della realtà
Luigi Ghirri: «…un groviglio di monumenti, luci, pensieri, oggetti, momenti, analogie formano il nostro paesaggio della mente che andiamo a cercare, anche inconsciamente, tutte le volte che guardiamo fuori da una finestra, nell’aperto del mondo esterno, come fossero i punti di un’immaginaria bussola che indica una direzione possibile». Ecco quale sembra essere la ricerca costante alla base del lavoro del maestro emiliano: il tentativo di orientarsi in un mondo che non appare più lo stesso, che di continuo si modifica sotto lo sguardo, troppe volte distratto, di chi osserva.
Lo sguardo, secondo il fotografo nato a Fellegara di Scandiano in provincia di Reggio Emilia nel 1943 e morto a Roncocesi, una frazione di Reggio Emilia, poco prima di compiere cinquant’anni, per usare ancora le sue parole «diventa un sentire etico, la modalità per indagare e raccontare luoghi che sembravano aver perso ogni riconoscibilità», in particolare quel paesaggio lungo la via Emilia, diremmo (con Guccini) fra la via Emilia e il West, che così tante trasformazioni ha subìto pur rimanendo, a volte, così inaspettatamente fedele a se stesso prima di perdere nuovamente la propria anima e ritrovarla, ma in definitiva mai uguale, soltanto pochi chilometri dopo.
Inevitabilmente questo spaesamento continuo si riflette anche sull’animo di chi guarda, modificandone il panorama interiore, e allora quello che cerca Luigi Ghirri diventa «un punto di vista sul mondo esterno e una visione su un mondo più nascosto, interiore, di attenzione, di memorie spesso trascurate», e la fotografia si trasforma pertanto in «un procedimento non per ricordare l’evento ma per ricordarsi in relazione a un certo evento che non esiste in quanto tale, ma esiste in quanto fotografato, dunque fa parte della nostra esperienza che non è mai esperienza reale, ma esperienza del possibile».
Proprio intorno a questa ricerca continua ruota e si incentra la mostra al museo Jeu de Paume di Parigi: Luigi Ghirri Cartes et Territoires, fino al 2 giugno, a cura di James Lingwood. La mostra, che arriva a Parigi dopo essere stata al Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofia di Madrid e al Museum Folkwang di Essen, è la prima grande retrospettiva dedicata a Luigi Ghirri fuori dall’Italia e vengono presentate al pubblico quattordici serie da lui realizzate nel corso degli anni settanta.
Ghirri iniziò a dedicarsi esclusivamente alla fotografia a partire dal 1973 circa. In precedenza era stato geometra e topografo, ma in quel primo decennio inizia a comporre diverse serie fotografiche dedicate all’immagine naturale e a quella artificiale, all’immaginario del consumo e all’ambiguità del paesaggio contemporaneo in generale. Cruciale sarà poi l’incontro con Arturo Carlo Quintavalle e Massimo Mussini e la conseguente collaborazione con il Centro Studi e Archivio della Comunicazione (CSAC), fondato da Quintavalle a Parma nel 1968, inizialmente presso il Palazzo della Pilotta, con lo scopo non soltanto di indagare il contemporaneo, ma soprattutto di costituire una raccolta di arte pubblica connessa alla ricerca e al mondo universitario.
Vera Fotografia è il titolo della mostra che Quintavalle e Mussini dedicarono a Ghirri presso lo CSAC di Parma nel 1979, un progetto ambizioso che raccoglieva tutti quelli sino ad allora realizzati dal fotografo, proponendo quattordici sequenze fotografiche: Fotografie del periodo iniziale (1970), Kodachrome (1970-’78), Colazione sull’erba (1972-’74), Catalogo (1970-’79), Km 0.250 (1973), Diaframma 11, 1/125, luce naturale (1970-’79), Atlante (1973), Italia Ailati (1971-’79), Il paese dei balocchi (1972-’79), Vedute (1970-’79), Infinito (1974), In scala (1977-’78), Identikit (1976-’79), Still life (1975-’79).
La mostra al museo Jeu de Paume, caratterizzata da un allestimento elegante, rigoroso, sobrio e minimalista, con pareti dai colori tenui, calmi, tendenti al pastello, che richiamano quelli delle foto esposte, si lega strettamente a quella di Parma del 1979, ma non ne rappresenta una mera ripetizione. La mostra parigina è infatti l’occasione per ripensare l’opera di Ghirri proprio alla luce di quello scarto temporale di quarant’anni, nel corso dei quali il paesaggio al centro dell’indagine dell’artista e la sua percezione sono stati costantemente oggetto di cambiamento. È proprio il curatore della mostra, James Lingwood, a chiarire l’intenzione del percorso espositivo, che richiama la «cartografia poetica» dell’esposizione di Parma, con opere dai soggetti molto differenti fra loro, lirici, prosaici, o addirittura ludici, che l’artista stesso definiva «un percorso a zigzag più che una linea retta, precisa, non una direzione monomaniacale». L’opera di Ghirri quindi, sempre secondo Lingwood, è caratterizzata da continue digressioni e deviazioni che rispecchiano l’idea del fotografo secondo il quale il proprio lavoro consisteva «nella stesura di una carta geografica più che nel seguire una linea retta, una strada precisa, una specie di percorso obbligato; nel costruire piano piano, assieme, una specie di mappa sulla quale ognuno può trovare la sua strada pur muovendosi all’interno di una serie di regole prestabilite, di conoscenze necessarie».
L’impressione di spaesamento che deriva osservando le foto di Ghirri viene quindi ulteriormente evidenziata oggi da un senso di distanza che ormai non è più soltanto una sensazione interna, ma anche un dato temporale oggettivo. Si tratta per lo più di immagini di paesaggi ordinari fotografate a colori. Mentre era ancora la foto in bianco e nero ad avere un vero riconoscimento artistico, Ghirri fotografava, infatti, a colori «perché il mondo reale non è in bianco e nero e perché per qualcosa saranno pur stati inventati il negativo e la carta fotografica a colori». È interessante sapere che per lo sviluppo delle sue foto, Ghirri si affidava esclusivamente a laboratori convenzionali e non specializzati in quanto si dichiarava espressamente non interessato alla «produzione di feticci per collezionisti», né tantomeno agli interventi di maquillage sull’immagine, senza cimentarsi mai nel lavoro di camera oscura. Le opere rispecchiano per la maggior parte i formati della carta fotografica standard che coincidono però perfettamente con l’idea iniziale che l’artista ha dell’immagine, in un approccio che tende alla ricerca di una maggiore semplificazione, ma che, allo stesso tempo, ne esalta la raffinatezza, poiché «bisogna semplificare la strumentazione. Ormai si parla più della fotocamera che della fotografia. Dobbiamo utilizzare la tecnologia come liberazione, non come costrizione. Spesso in fotografia accade esattamente l’opposto».
Nonostante ciò le foto di Ghirri sfuggono decisamente a ogni banalità, confermando così che il fine della sua ricerca e la sua intenzione di fondo «non era quella di testimoniare della “banalità” quotidiana, di sottolinearne il “kitsch”. Era piuttosto un desiderio di conoscenza, di decifrazione».
Si tratta di immagini di raffinata e malinconica bellezza che testimoniano di un’Italia di provincia, vicina a quella dell’amico Gianni Celati, con la cui scrittura sono notevoli i punti in comune. Un’Italia rappresentata attraverso una quotidianità quasi sempre svuotata dai soggetti umani, che quando sono presenti vengono ritratti di spalle, colti di sorpresa, distratti, distanti o intenti a loro volta a fotografare altre persone, che si ritrova in paesaggi mai però privi dell’intervento umano, che appaiono sospesi in un’atmosfera rarefatta e di grande solitudine, quasi metafisica, quella degli spazi infiniti della pianura padana avvolta nella nebbia o nel calore estivo, oppure dello sconfinato litorale romagnolo.
«La fotografia – per concludere di nuovo con la voce stessa di Ghirri – non è pura duplicazione o un cronometro dell’occhio che ferma il mondo fisico, ma è un linguaggio nel quale la differenza fra riproduzione e interpretazione, per quanto sottile, esiste e dà luogo a un’infinità di mondi immaginari». Ma forse le parole migliori da tenere a mente tornando a osservare Ghirri in questa occasione parigina sono i versi della canzone L’uomo delle pianure, pubblicata nel 1999 nell’album Fuori Campo, a sette anni dalla sua prematura scomparsa, che i Modena City Ramblers gli dedicarono: «Pianura d’aria e sole / Pianura di pittori e matti / Di cieli sopra fabbriche e campanili / La foto prende il cielo / La foto prende il ferro e il cemento / La foto ruba il sole e ruba l’anima».
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