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Géricault, una fenomenologia quasi shakespeariana

Géricault, una fenomenologia quasi shakespearianaThéodore Géricault, "Tête de cheval blanc", 1815, Parigi, Musée du Louvre

Animal House, Ottocento francese: i cavalli di Théodore Géricault Bestia grande e ombrosa, soggetta a scarti d’umore repentini, nei suoi dipinti il cavallo si fa specchio di una ricca teoria di stati d’animo. La soggettività del pittore romantico si trasfuse a tal punto nella sua figura, che proprio una caduta di sella fu all’origine della sua morte precoce

Pubblicato circa 2 mesi faEdizione del 11 agosto 2024
Théodore Géricault, “Cheval Cabre”, 1812, Rouen, Musée des Beaux-Arts

Nel 1814 Théodore Géricault, appena ventitreenne, espone al Salon il suo Corazziere ferito che abbandona il campo di battaglia, pendant ideale del quadro messo in mostra due anni prima, L’ufficiale delle guardie a cavallo alla carica. Malgrado le apparenze, né l’uno né l’altro dipinto sono legati alla situazione politica contingente: le figure dei due soldati esprimono piuttosto la melanconia di chi riflette sull’imponderabilità dei destini umani. Sono le cavalcature, invece, a esprimere la forza, il vigore, la violenza della battaglia. Fra l’ottobre e il dicembre di quello stesso 1814 nello studio di Jacques-Louis David il pubblico poteva ammirare il Leonida alle Termopili, escluso dal Salon per ragioni politiche, grande dipinto che celebrava non tanto e non solo il valore e il coraggio, quanto la solidarietà e l’amicizia maschili, alla vigilia di una prova eroica e disperata. Sia nel Corazziere géricaultiano sia nel Leonida davidiano è in gioco il potere delle immagini di evocare un’emozione e, nell’uno e nell’altro caso, la tonalità è meditativa (non è più il David del Giuramento degli Orazi).
Il maestro neoclassico, tuttavia, parlava con i codici della pittura di storia, che da trent’anni almeno dominava e che egli aveva, anzi, contribuito ad arricchire e modificare. Sulle medesime basi, nell’ultimo decennio della sua vita, avrebbe dipinto un magnifico gruppo di favole mitologiche volte a sondare il tema delle emozioni come movente primario dell’esistenza umana. Invece Géricault, per esprimere emozioni e contenuti ideali, sin lì riserva esclusiva della tipologia più elevata della gerarchia accademica, si serve di generi considerati inferiori, ad esempio la pittura di soggetto militare o animalista. Il linguaggio della pittura di storia, che padroneggia appieno (prova ne sia il suo capolavoro, La zattera della Medusa), sembra non bastargli.
Il bisogno di estendere ad altri generi pittorici la possibilità di parlare alto è al cuore dell’arte romantica: il genere prescelto dai tedeschi e dagli inglesi è il paesaggio, la Landschafterei di cui parla Philipp Otto Runge in una lettera del 1802 al fratello. Per Géricault è la pittura d’animali, in particolare di cavalli, non più considerati come mero attributo del potere o parte di un bestiario pittoresco. Lasciatesi alle spalle le strette codificazioni del Neoclassico, gli artisti accedono così a strumenti più plastici di espressione della soggettività, nei motivi e nella tecnica. Sotto quest’ultimo profilo alla sorvegliata levigatura dell’arte neoclassica si sostituisce in Francia una pittura di tocco e di materia, che lascia evidente il segno del pennello e fa trapelare, viva e palpitante, la presenza dell’autore: per questo un pittore non di primo piano come Antoine-Jean Gros può diventare modello per artisti di ben altra statura, come, appunto, Théodore Géricault ed Eugène Delacroix. La pennellata libera dei romantici francesi corrisponde al bisogno di esprimere la risposta soggettiva dell’artista di fronte allo spettacolo del mondo; è l’indizio di uno sguardo partecipe e consente di avvicinarsi in modo inedito alla realtà. Ciononostante, i motivi scelti non valgono soltanto di per sé stessi, ma sono veicolo di idee, pensieri ed emozioni che li colorano, quasi sempre, di una tinta allegorica: quando mai un paesaggio di Caspar David Friedrich o di William Turner è soltanto natura?
Dal canto suo il cavallo, animale grande e ombroso, soggetto a scarti d’umore repentini e a comportamenti non sempre controllabili, si presta in Géricault a farsi specchio di stati d’animo diversificati e complessi. Nel 1816, fallita la prova del Prix de Rome, l’artista decide di compiere comunque il viaggio in Italia, e a Roma, nel 1817, lavora a un quadro (che avrebbe forse voluto declinare in grande) dedicato alla corsa dei cavalli berberi a via del Corso, che si teneva ogni anno alla fine del Carnevale: gli animali, lasciati liberi di galoppare a perdifiato lungo l’arteria principale della città, sono indizio di libertà e vitalità selvaggia. Tutto diverso, vicino al modo di sentire dei due quadri citati in apertura, è il cavallo che appare in una litografia carica di disperazione e senso di sconfitta, Retour de Russie (1818): in sella è un soldato bendato, che ha perduto la vista in battaglia, e si appoggia a un commilitone con il braccio destro amputato. L’animale, sfinito, piega il lungo collo verso il suolo gelato, dove gli zoccoli sembrano slittare. Il purosange a cui è legato Mazeppa, come Prometeo alla sua rupe, e che compare in un quadro scuro e notturno del 1822-’23, ha invece la stessa qualità indomita di quello del poema byroniano, a cui l’artista si ispira.
Attraverso gli amati quadrupedi, Géricault getta anche un occhio sulla realtà presente. Senza volergli attribuire il ruolo di inventore della pittura della vita moderna – muore troppo giovane per questo –, attraverso i cavalli Géricault parla anche dei cambiamenti nel mondo circostante. Descrive ad esempio l’equitazione come svago prediletto dall’alta borghesia e raffigura quindi i purosangue snelli e scattanti, le corse famose, come il derby di Epsom, le scuderie (in uno studio precoce, del 1811-’12, mostra la groppa – e soltanto quella – di ventiquattro cavalli). Decenni dopo Edgar Degas sarebbe tornato sui cavalli come motivo di vita moderna, ma l’ispirazione a Géricault non si ferma qui: nel galoppo scomposto del cavallo raffigurato nel Fantino ferito (1896-’98), Degas potrebbe essersi anche ricordato dell’animale cavalcato dal Corazziere di Waterloo (1815), che fugge atterrito dal massacro.
Géricault dipinge anche i cavalli «proletari» (dice Bruno Chenique), visti a Londra e a Parigi mentre trasportano il carbone e tirano su le barche dall’acqua; o quelli robusti, disposti attorno a una fornace dove si spegneva la calce a Montmartre, non lontano dalla casa dove Géricault abitava, protagonisti di uno degli ultimi capolavori del pittore, Le four à plâtre (1823). Bestie forti e ineleganti, come quelle che trasportano le artiglierie nei quadri di soggetto militare.
Géricault avrebbe pagato a caro prezzo la sua passione per i cavalli. In Inghilterra, dove porta La Zattera della Medusa (ottenendo maggior successo che a Parigi), compra tre cavalli dal mercante Adam Elmore. Di ritorno in Francia, durante una passeggiata, il suo cavallo ha uno scarto e il pittore cade rovinosamente, procurandosi danni irreparabili, aggravati poi da altre due cadute. Delacroix, che lo vede poco prima della morte, ne descrive la terribile magrezza, presagio della fine. Si spegne a Parigi la mattina del 26 gennaio del 1824. Poche settimane dopo il suo amico Ary Scheffer espone al Salon un quadro piccolo e pieno di commozione, in cui il pittore è sul letto, appena spirato, pianto da due dei suoi amici più cari. Il dipinto è oggi esposto a Parigi nella casa che fu di Scheffer, ora Musée de la vie romantique, dove sino al 15 settembre si può visitare una mostra (a cura di Gaëlle Rio e Bruno Chenique) in cui si esplora la ricchezza quasi shakespeariana degli aspetti assunti dal cavallo nell’arte di uno dei fondatori del romanticismo europeo.
Quasi un presagio della parte giocata dai cavalli nel fato dell’artista sono le scene dove la presenza dell’animale assume una coloritura tragica, come nel Cavallo aggredito da un leone, tratto da un quadro di George Stubbs, noto a Géricault da un’incisione, e a sua volta risalente a un motivo frequentato dalla scultura antica. Ma è soprattutto nel tema del cavallo morto che l’indole saturnina di Géricault trova modo di esprimere l’ineluttabilità del destino umano: l’artista all’inizio degli anni venti lavora infatti a un gruppo di opere dove il corpo dell’animale giace inerte, disteso su un fianco. In un acquerello del 1820-’21 la carogna di un cavallo viene portata via su un carro guidato da un contadino dalle spalle curve; lo seguono altri due cavalli. Nel cielo volano i corvi, l’orizzonte è piatto e avvolto nella nebbia: il convoglio è avviato verso il nulla.

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