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Gerald Scarfe, la mente surreale

Gerald Scarfe, la mente surrealeLa locandina di «The Wall», film musical tratto dal celebre album del 1979. Opera di Gerald Scarfe del 1982

Intervista Con i fumetti e con i film, l'artista inglese ha mostrato il lato oscuro della politica, anche grazie al sodalizio con i Pink Floyd

Pubblicato quasi 5 anni faEdizione del 11 gennaio 2020

Il tratto inconfondibile e lo sguardo visionario di Gerald Scarfe lo hanno reso uno dei più talentuosi disegnatori del XX secolo. Nelle sue creazioni l’umorismo può trasformarsi in incubo, trascinando lo spettatore in labirinti inquietanti e surreali, e la satira sociale può assumere i contorni di una visione lucida e folle al tempo stesso. Diventato celebre per le immagini e le animazioni iconiche che hanno accompagnato i dischi e gli show dei Pink Floyd, nella sua carriera Scarfe ha lavorato sia come reporter e vignettista (Punch, Private Eye, Sunday Times e The New Yorker) sia in ambito artistico. Lo abbiamo incontrato nella sua casa di Londra, sulle rive del Tamigi.

Credi che se tu non avessi avuto un’infanzia complicata saremmo qui a parlare della tua arte?
Chi lo può sapere. Ho appena scritto la mia autobiografia, la storia della mia vita, si intitola Long drawn out trip: a memoir. Sono dovuto tornare indietro alla mia infanzia, perché secondo il mio editore la gente vorrebbe sapere come sono diventato quello che sono: un artista inquietante che realizza immagini scioccanti e surreali. Durante l’infanzia le mie condizioni di salute non erano buone perché soffrivo di asma, che negli anni ‘30 era una malattia grave, ma i miei genitori non hanno divorziato e noi facevamo parte della classe media quindi non avevamo altri problemi. Penso semplicemente che sia stata la mia asma a separarmi dagli altri ragazzi. Ero sempre in ospedale o a letto e i bambini non vogliono giocare con un bambino malato. Non ho mai avuto molti amici e così leggevo molto, preparavo dei modellini in plastilina, giocavo con le marionette e disegnavo, disegnavo, disegnavo. Credo che i disegni fossero la mia immaginazione messa su carta, anche quando ero molto giovane. È stato un modo per esorcizzare la mia paura. Penso che questo accada anche oggi, ad esempio quando disegno Mr. Trump; lui non mi piace e così la paura di lui e delle sue azioni la metto su carta, nei miei disegni politici. Il fatto di essere malato (tossisce spesso durante la conversazione a causa dell’asma ndr) mi ha portato a creare disegni grotteschi e inquietanti? Ci sono molte persone più malate di me che non hanno mai disegnato in vita loro, quindi non so se nel mio caso questa circostanza mi abbia spinto verso una black vision del mondo. Immagino di essere stato fortunato perché ho sfruttato questa condizione, mi ha dato l’impulso. Quando i miei disegni sono stati pubblicati per la prima volta, non immaginavo che le persone sarebbero rimaste piacevolmente sorprese, erano ordinari per me.

Che strumenti usi nel tuo lavoro?
Un pennino con inchiostro nero e disegno in piedi sulla mia scrivania. Lavoro su fogli di carta molto grandi, anche un metro per un metro e mezzo. Lavoro impulsivamente, disegno tutto subito perché in questo modo posso contenere l’energia e incanalarla sulla carta. Negli anni ho disegnato le caricature di molti politici: Thatcher, Nixon, Churchill, Berlusconi ma con loro mi annoio, i politici sono noiosi. Volevo fare altro così mi sono spostato nel teatro e ho realizzato animazioni e scenografie anche per l’opera e il balletto (Il flauto magico, Orfeo all’inferno, Lo schiaccianoci ndr), spingendomi sempre in direzioni diverse, esplorando nuove strade. Da piccolo i miei genitori mi dicevano che avrei dovuto fare affidamento su di loro per tutta la vita a causa della malattia e che non mi sarei guadagnato da vivere, ma io pensavo che ce l’avrei fatta da solo e credo che questa sia stata una forza trainante. Ora i miei genitori sono morti ma penso che io stia ancora dimostrando loro che ce l’ho fatta. Non mi sono fermato alle caricature, le ho introdotte nel rock and roll, nell’animazione, nelle pubblicità, nel teatro, ovunque.

Come hai vissuto il passaggio dal disegno pubblicitario al lavoro per le riviste satiriche?
La pubblicità era l’unico lavoro che potevo ottenere quando ero a scuola, anche se non ci andavo quasi mai. Mio padre lavorava nel settore bancario e voleva che seguissi la sua strada ma io non volevo, così mi hanno mandato in uno studio di grafica pubblicitaria. Ero davvero giovane e mentre lavoravo lì mi resi conto che stavo prostituendo il mio lavoro, la pubblicità cerca di vendere qualcosa facendolo sembrare meraviglioso, seducente, desiderabile. Per far sembrare bello un oggetto anche se non lo era, non usavano le fotografie, tutto era disegnato. Sai come funziona la vendita. In quei momenti pensavo: sono così fortunato ad essere un artista, perché sto raccontando bugie attraverso il mio lavoro? C’era questa rivista satirica, Private Eye, ho iniziato a lavorare lì e da quel momento sono stato finalmente libero, ho avuto l’opportunità di dire la verità sui politici, su chi abusa del proprio potere e sulla nostra società senza l’obbligo di abbellirla.

Alcuni artisti cercano la realtà, altri la trascendenza, altri di sorprendere lo spettatore? Cosa cerchi nei tuoi disegni?
La verità, anche se nessuno sa cosa sia, io cerco di mettere la mia verità sulla carta. Le persone spesso mi inviano delle mail per raccontarmi quali effetti ha avuto il mio lavoro su di loro. Una volta mi ha scritto una persona perché voleva il mio autografo per farselo tatuare sul braccio dove già aveva dei disegni dei Pink Floyd. Poi mi ha inviato un dvd con il video girato mentre si stava tatuando, con il sangue che colava…nel video mi spiegava che i miei disegni gli avevano dato speranza mentre era in missione come soldato nella guerra del Golfo. Non so come questo sia stato possibile visto che i miei disegni sono così tetri. Al tempo stesso mi ha inviato anche la sua medaglia d’oro al valore come segno di rispetto, io l’ho ringraziato ma gliel’ho rispedita dicendogli che era lui l’eroe, io sono solo un artista. Questo per farti capire quali effetti possono avere i disegni sulle persone.

Hai realizzato dei reportage per il Sunday Times durante la guerra in Vietnam e durante i Troubles nell’Irlanda del Nord. Che ricordi hai di quei periodi?
Sono stato in Vietnam negli anni ’60 ma fino a quel momento tutto ciò che sapevo su quella guerra lo avevo appreso dalla televisione. Si vedevano queste scene da film: gli elicotteri, le pale che roteavano ed i soldati che saltavano giù. Quando arrivai lì capii immediatamente che erano solo dei ragazzi di 18, 20 anni strappati dai college e obbligati ad andare dall’altra parte del mondo per combattere persone che non volevano combattere. Incontrai molti giovani americani e credevo che gli USA stessero sbagliando. Vidi delle cose orribili ma questo fa parte del lavoro del reporter. In Irlanda invece sono stato rapito dall’IRA. Ero a Belfast e avevo affittato una macchina, stavo disegnando in auto quando mi bussarono al finestrino. Un ragazzo mi chiese cosa stessi facendo, gli spiegai che stavo lavorando per il Sunday Times e lui mi disse che gli serviva la mia macchina. A quel punto aprirono gli sportelli ed entrarono in tre, si presentarono come membri dell’IRA, mi puntarono una pistola al costato e mi ordinarono di partire. Io ero spaventato. Durante il tragitto uno dei ragazzi mi fece i complimenti per i disegni, guidai per cinque minuti e poi mi lasciarono andare ma si presero la macchina. Era una Ford Cortina, un macchina con un grosso bagagliaio. Il giorno dopo, con quell’auto, fecero esplodere un ufficio postale a Londonderry. Mia moglie era in lacrime, dopo quel giorno ci trasferimmo a Dublino (ride ndr).

Una delle tue caratteristiche è deformare il corpo umano, i tuoi disegni però non sono sempre così immediati da comprendere, il lettore deve abituarsi.
È vero, mi piace allungare i volti, allungare i corpi o asciugarli mantenendo lì dentro sempre un po’ di personalità. Leggendo i quotidiani le persone possono imparare a ridere dei loro politici, amano ridere delle persone che controllano la loro vita.

«Long Drawn Out Trip» è il tuo primo film d’animazione, come è nata l’intuizione per la scena di Topolino?
Mentre ero a Los Angeles negli anni ’70, pensavo che avrei disegnato tutto ciò che rappresentava gli Stati Uniti: Donald Duck, Topolino, la rivista Playboy, la Coca Cola, il Black Power, la statua della libertà, John Wayne, Frank Sinatra. Ho realizzato una sorta di flusso di coscienza in cui un’immagine si trasformava in un’altra, un gelato si trasformava in un razzo. Mickey Mouse è molto americano e all’epoca circolavano molte droghe, così ho deciso di trasformare Topolino in un drogato (mima il fumo di uno spinello ndr). Quando lavoravo alla Disney (ha realizzato le scenografie ed i design di tutti i personaggi del film Hercules ndr) ho mostrato ai miei colleghi la sequenza di Topolino e sono rimasti scioccati perché Mickey è così perbene.

Quando i Pink Floyd hanno visto «Long Drawn Out Trip» hanno pensato che avevi la dark fantasy che stavano cercando. Credi che le tue illustrazioni siano state per loro una fonte di ispirazione?
Sì, Roger (Waters ndr) vide il film e il giorno dopo chiamò Nick (Mason ndr) dicendogli che dovevano lavorare con «quel fottuto pazzo». Quando iniziai a collaborare con i Pink Floyd non avevo idea di quale impatto avrebbero avuto i miei disegni, era solo un lavoro come un altro. Improvvisamente The Wall diventò iconico, un classico, ma non avevo quella sensazione mentre ci stavo lavorando. Penso che insieme abbiamo raggiunto una nuova visione, ognuno ha completato l’altro. Credo di aver interpretato la loro musica nel modo in cui mi piaceva farlo; in The Wall ci sono le mie idee sebbene Roger avesse scritto i testi delle canzoni. I disegni sono la mia reazione a quelle parole, sono venuti dalla mia mente. Roger non mi disse mai cosa dovevo disegnare, mi spiegò ad esempio che avevano bisogno di qualcosa per rappresentare il fascismo e le forze dell’oppressione, qualcosa di inarrestabile. La prima cosa a cui pensai fu un martello, che è fatto di acciaio e non ha un cervello, il passaggio successivo fu far marciare dei martelli come dei nazisti. A quel punto Roger estese la musica per fare in modo che i martelli si vedessero più a lungo e inserì nel testo «hammer, hammer, hammer». A volte mentre disegnavo Roger prendeva appunti, la maggior parte delle volte, quando ascoltavo la loro musica, accadeva il contrario.

Qual è stato il tuo approccio quando hai iniziato a lavorare per «Wish you were here?» I tuoi disegni sono diventati più surreali.
Quando ho incontrato i Pink Floyd per la prima volta non sapevo cosa fare, non capivo bene cosa volessero. Roger conosceva i miei lavori e credo volesse qualcosa di politico poiché all’epoca i miei lavori erano principalmente politici; anche oggi Roger utilizza la sua influenza per ragioni politiche. Iniziai a disegnare, la prima cosa fu un ragazzo che cammina verso la telecamera come una sagoma in una tempesta di sabbia, mentre cammina il corpo soffia via fino a quando non rimane nulla. In The Wall c’era una storia da raccontare, Wish you were here invece riguardava Syd Barrett che non era più lì. In quel periodo Roger mi chiese di fare delle animazioni ma io avevo bisogno di ascoltare la musica prima per disegnare. Lui non si preoccupava di quello che avrei fatto, l’idea era che se metti un’immagine durante la musica, il cervello comprenderà la ragione del perché è lì. Mi occupai delle animazioni dello show che poi vennero proiettate su un grande schermo circolare.

Avevi già lavorato a teatro, ad esempio per l’English National Ballet, ma lo show di The Wall è uno degli eventi teatrali più ambiziosi che abbia mai visto. C’era anche dell’improvvisazione?
Certamente, come in qualsiasi altra cosa, nulla si sviluppa esattamente come ce lo aspettiamo, questo accade anche nei miei disegni. Ho un piano in mente ma poi accade qualcosa e cambio strada, non puoi mai controllare totalmente il processo creativo. Penso che uno degli stati d’animo migliori sia quando vengo rapito dalla creatività ed è lei a guidarmi, non devo pensare, agisco automaticamente ed è quasi una predisposizione, un percorso guidato da qualcos’altro o qualcun altro. Non sai mai esattamente come si sviluppa lo show, anche se dall’esterno sembra molto preciso e lo stesso accade per la loro musica.

Quando Waters ti ha fatto ascoltare per la prima volta The Wall quale è stata la tua impressione?
Io e Roger eravamo diventati amici, giocavamo a biliardo, bevevamo birra, trascorrevamo le vacanze insieme. Un giorno mi disse che aveva scritto The Wall, al quale stava lavorando da molto tempo, e che una volta finito me lo avrebbe fatto ascoltare. E così fece. Credo di essere stato il primo ad aver ascoltato The Wall. Portò a casa mia una registrazione grezza della sua voce, fatta con un sintetizzatore, e si mise a sedere di fronte a me. Mi continuò a fissare per tutto il tempo per vedere le mie reazioni ma non io non avevo l’immaginazione musicale per comprendere il suo lavoro. Quando finì rimanemmo in silenzio e poi dissi qualcosa del tipo: «great!». Sentivo che si era denudato, che si era esposto di fronte a me e che era vulnerabile e la mia reazione fu del tutto inadeguata.

La collaborazione con Alan Parker e Waters per il film non è stata semplice. C’è anche parte della tua vita in The Wall?
Sì è stata una collaborazione complicata perché io avevo lavorato con Roger sull’album, sullo show, avevamo creato i personaggi e deciso cosa dovevano fare, poi abbiamo scritto la sceneggiatura e alla fine Roger ha assunto Alan Parker. Inizialmente avrei dovuto dirigere io il film ma nessuno conosceva il mio nome a Hollywood così decidemmo di farlo dirigere a Parker che invece era già noto. Parker a quel punto non voleva altra gente intorno ma noi avevamo investito molto tempo ed energie nel progetto e non volevamo lasciarlo andare via. È stato molto difficile ottenere dei soldi perché Hollywood non capiva che tipo di film fosse. Una rock band che suonava con delle animazioni, poi c’erano le riprese con gli attori, come potevi sapere se avrebbe funzionato? In ogni caso siamo riusciti a trovare il denaro. Il problema era che Parker era il regista e voleva decidere da solo, ci sono stati scontri tutti i giorni.

C’erano tre registi nella stessa stanza.
Tre megalomani (ride ndr). Quando abbiamo terminato il lavoro ero piuttosto depresso perché avevo messo talmente tanta energia in una sola cosa ed ora era tutto finito. In The Wall c’è anche la mia visione e quindi riguarda anche la mia vita.

Come è nata l’idea della frequenza dei fiori?
È iniziata con Wish you were here ed è composta da moltissimi disegni, migliaia. Per questo l’animazione era molto costosa e poteva permettersela la Disney oppure una rock band. Iniziai a disegnare dei fiori che crescevano, che si trasformavano, che fanno sesso. Non so come sia accaduto, è la storia di un fiore e di un essere umano.

Recentemente hai collaborato con Waters per il suo «The Wall Tour», creando nuove animazioni, e per la mostra sui Pink Floyd «Their Mortal Remains». Cosa pensi delle sue scelte politiche (pochi giorni dopo l’intervista Waters è intervenuto ad un evento pubblico a Londra per la scarcerazione di Assange)?
È un grande sostenitore della causa palestinese e credo sia coraggioso perché esponendosi in questo modo diventa un bersaglio. Non ho mai parlato con lui di questi temi, ora poi non ci vediamo spesso perché vive a New York. Io vivo la politica attraverso i miei disegni.

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