Visioni

George Harrison, il personale e l’universale tra spirito e materia

George Harrison, il personale e l’universale tra spirito e materiaGeorge Harrison durante un concerto dei Beatles, 1964 – foto di Mike Mitchell/Ansa

Note sparse Esce una riedizione di «Living In the Material World», ventiquattro tracce tra originali e outtakes

Pubblicato circa 4 ore faEdizione del 20 novembre 2024

È nel retropalco del Madison Square Garden, alla vigilia del concerto per il Bangladesh, che il ventottenne George Harrison vede compiersi all’improvviso il salto da terzo Beatle — pur meno quiet di quanto si dica — a frontman e deus ex machina del primo megaevento filantropico della storia. «Il solo pensiero mi fa tremare», aveva confessato in conferenza stampa; ora eccolo lì a fare da guru ammonitore a un Eric Clapton in crisi di astinenza e un Bob Dylan in pieno panico da palcoscenico. L’Harrison di inizio anni Settanta è un novello Ulisse passato dalla cabina al timone, in rotta verso Krishna ma con un debole per vizi e sirene. Un conflitto interiore tra spirito e materia reso ancor più aspro dal naufragio del suo matrimonio, da troppi giorni in tribunale (l’accusa di plagio per My Sweet Lord, la lunga coda legale con gli ex Beatles, un paio di condanne per guida pericolosa) e dall’ansia di reggere le aspettative di chi vede in lui una figura sempre più cristica di artista illuminato e compassionevole (che infatti si impegnerà a rimediare al caos finanziario pro-Bangladesh fondando la Material World Charitable Foundation).

Il disco di un uomo in crisi e al contempo un artista al culmine dell’ispirazione

DAL PUNTO di vista artistico, l’imponente All Things Must Pass lo ha liberato dalle (auto)censure del confronto con Lennon e McCartney: dopo aver penato persino per far uscire Something, «la più bella canzone d’amore di tutti i tempi» (cit. Sinatra), il triplo album del 1970 non ha certo esaurito la sua vena creativa, il cui yang è pienamente espresso in Living In The Material World (1973), riedito da Dark Horse/Bmg con differenti supporti e paratesti documentari, a cura di Dhani e Olivia Harrison con Paul Hicks al mixer. Ventiquattro tracce, tra originali e outtakes, ci riconsegnano un artista che guadagna il primissimo piano anche in studio, letteralmente padrone di casa dato che gran parte della lavorazione si svolge nella sua reggia di Friar Park prima delle sovraincisioni alla Apple. Innanzitutto il Wall of Sound di Phil Spector — messo fuori gioco dall’alcol — non fa più da scudo, mentre la precedente truppa di musicisti si è ridotta al nucleo con Ringo Starr e Jim Keltner (batteria), Klaus Voorman (basso), Nicky Hopkins e Gary Wright (tastiere), con i contributi di Jim Horne (fiati), Zakir Hussein (tabla), John Barham (orchestrazioni). Sulle chitarre le uniche impronte digitali sono quelle di George, al culmine della sua evoluzione alla slide e semplicemente squisito sulle acustiche, anch’esse in primo piano sin da Give Me Love (Give Me Peace On Earth).

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SE LA SUA CHITARRA «piange dolcemente», ora la voce fa altrettanto, ed è forse questo l’elemento distintivo del nuovo idioletto del Quiet One, che mai si era spinto oltre il limite del suo registro come in That Is All. Nell’incresparsi di quella voce si riscopre un controcanto laico ai sermoneggianti The Light That Has Lighted The World, The Day The World Gets Round e The Lord Loves The One (That Loves The Lord), che avevano abbagliato la prima ricezione oscurando il lato più intimo, emotivo e anche irascibile, intriso di dark humour in Sue Me, Sue You Blues (ancora sulle vicissitudini legali degli ex Fab Four), tormentato in Who Can See It (di cui la reissue ci propone nientemeno che il take 93, prova di una produzione assai sudata), consapevole in Be Here Now.

Cinquant’anni dopo, il personale guadagna volume sull’universale. Forse perché il contesto è mutato (non che la crisi energetica, la recessione, il piombo del Vietnam e dell’Ira  facciano del 1973 un anno da sogno) o forse perché ormai ci abbiamo piantato le tende, nel mondo materiale.

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