5 ottobre 1962, sessant’anni fa. Una giornata come tante altre se non fosse che a Londra i negozianti di dischi piazzano in vetrina il primo 45 giri di un gruppo mai sentito prima. Titolo: Love Me Do. Nome del gruppo: The Beatles. Se ne accorsero in pochi, ma nel giro di qualche mese il mondo non sarebbe più stato lo stesso. La data avrebbe anche potuto essere diversa. Il primo gennaio del ’62 quattro ragazzotti entravano, accompagnati dal manager Brian Epstein, negli studi della Decca, a Londra, a far ascoltare quindici canzoni. Si chiamavano Paul McCartney, John Lennon, George Harrison e Pete Best (più tardi giubilato dal gruppo, chi dice per imperizia nel suonare la batteria, chi dice per invidia da parte degli altri per il suo successo con le ragazze). Alla Decca sentirono i nastri e dissero: suoni vecchi, niente da fare (la frase «i gruppi con le chitarre presto non saranno più di moda» è passata alla storia). Lanciarono invece, quei geniacci, Brian Poole & The Tremeloes. I quattro niente, nemmeno una piega. Non si danno per vinti e continuano il giro delle etichette, approdando mesi dopo alla Parlophone. Lì trovano un tal George Martin che promette «ci pensiamo, ci lavoriamo, qualcosa verrà fuori». Cosa abbia visto nel gruppo Martin, uno che se ne intendeva più di jazz e di classica che di pop, resta un mistero. Pare che un ruolo fondamentale l’abbia giocato l’insistenza di Epstein nel promuovere i suoi protetti. Fatto sta che Love Me Do viene registrata il 4 e l’11 settembre del 1962 nello studio 2 di Abbey Road. Una rivoluzione? Un grandioso inno generazionale? Una botta allo stomaco? No davvero. Love Me Do è la più semplice ed elementare delle canzoni d’amore, con quei versi che dicono «amami, dai, tu sai che io amo te». Forse il solo brano firmato dalla premiata ditta Lennon-McCartney che sia Lennon sia Macca hanno cercato non di attribuirsi ma di scaricarsi a vicenda. Per John era tutta «roba di Paul, la scrisse quand’era teenager»; invece Paul la ricorda come uno sforzo comune: «Può darsi sia nata da una mia idea, ma è stata composta insieme, una collaborazione fifty-fifty».

IL CONTESTO
Per capire una canzone come Love Me Do e le motivazioni che spinsero i Beatles e George Martin a preferirla a brani più definiti, è necessario conoscere il contesto della musica che girava in quel periodo. Scoprire, ad esempio, che l’armonica di John è un riferimento fin troppo smaccato al disco del momento in Gran Bretagna, I Remember You di Frank Ifield, i cui virtuosismi vocali ricordano altri esperimenti musicali provati dai Fab Four. Altrettanto utile è sapere come il fenomeno più in voga fossero i complessi strumentali alla Shadows, amatissimi dai discografici anche perché potevano essere esportati negli altri mercati europei senza l’handicap della lingua. E questo forse spiega in parte lo sconfortante minimalismo del primo testo inciso dai Beatles, quella strofa ripetuta quattro volte, troppo banale persino per lo standard medio delle canzonette anni Sessanta.

L’edizione Usa di «Love Me Do»

In ogni caso chi l’avrebbe mai detto che un brano del genere avrebbe dato l’avvio alla più incredibile rivoluzione musicale e culturale del XX secolo, ad un modo completamente nuovo e diverso di fruire la musica? Il pezzo nemmeno brillò dal punto di vista commerciale, con vendite concentrate soprattutto a Liverpool e dintorni. Secondo una diceria, pare che Epstein tentò di far diventare la canzone un successo comprandone lui stesso diecimila copie. Fosse anche vero, la manovra non ebbe grande riuscita perché il brano si piazzò solo alla diciassettesima posizione nelle classifiche inglesi, mentre il botto lo fece, pochi mesi dopo, Please Please Me, e da lì a seguire tutti i 45 giri usciti dalla bottega dei quattro. Love Me Do arrivò in compenso prima in America, ma quasi due anni dopo, nel ’64, quando i Beatles erano già diventati un fenomeno musicale, mediatico, culturale, sociale di enorme portata. Il punto centrale è tutto qui. Dal ruvido ed elementare r’n’b della prima canzone alle splendide architetture sonore dei capolavori storici, passa la più grande alchimia artistica e sociale che si sia mai ascoltata. Nasce il beat, i capelli a caschetto, la minigonna, questi giovani che, per la prima volta in Europa, hanno se stessi come modelli. Se stessi in quanto giovani e non il mondo adulto, che intanto inveisce: capelloni, fannulloni, straccioni. Una rivoluzione apparentemente facile, alla faccia di chi ancora non crede che il mondo possa cambiare anche grazie a due chitarre, un basso e una batteria. Volendo si potrebbe anche parlare soltanto di musica, di come il beat nacque rubando dalla musica afroamericana, depurandola della componente afro, e poi aggiungendo, inventando, complicando un gioco già bello di suo. I Beatles infatti non si fermarono alle chitarre. Con il tempo, associarono di tutto: vennero fuori marcette, pezzi ricchi di archi e violini, persino il sitar fu impiegato a mani basse. La distanza tra le prime canzoni e le suite progressive (Revolution n. 9, per citarne una) è abissale. Non è il caso di dire ancora una volta quanto i Fab Four furono bravi, quanto seppero sprizzare ironia, far guizzare il genio, piegare al pop il rock’n’roll sbocciato oltre oceano appena qualche anno prima. Quel pop, prima di diventare il più grande fenomeno di mercato nella storia della musica, fu pop vero, l’abbreviazione di «popular», popolare, musica fatta per la gente, dalla gente cantata, fischiettata e ballata. I Beatles furono abili anche nel portare il pubblico ad apprezzare il passaggio a una musica più complessa che è anche il passaggio dal 45 giri a quella dell’album.

SPIRITO DI UN’EPOCA
Paul McCartney, John Lennon, George Harrison e Ringo Starr sono stati la forza musicale più importante della seconda metà del XX secolo. Quella musica non riuscì soltanto a catturare lo spirito della sua epoca. Piuttosto, le loro canzoni ebbero un effetto rivoluzionario sul mondo circostante. I Beatles ebbero il merito di trasformare il pop nella forma dominante della musica, avviando una riforma del genere condotta senza ribaltare i suoi meccanismi interni, ma irrobustendoli in progressione, a colpi di invenzioni armoniche, strumentali e liriche. E hanno rappresentato un progresso nella storia anche sotto altri punti di vista. Trasformarono radicalmente il modo di registrare e di presentare la musica. Sfidarono il luogo comune che dipingeva le popstar come icone false e prive di opinioni, senza al contempo dimenticare la propria dimensione scenica, il proprio rapporto con il pubblico e con il mercato del disco. Ampliarono e approfondirono il concetto dominante di musica pop, obbligando la critica a riconoscerla come una vera forma d’arte. La musica dei Beatles è lì, vitale oggi come ieri.
Non passa anno che l’industria non aggiunga zeri ai suoi fatturati in nome dei quattro di Liverpool e ci sono canzoni che canta anche chi non ha mai tenuto un loro disco tra le mani. Fu questa la rivoluzione che si mischiò alle altre rivoluzioni in corso negli anni Sessanta. Fino a che i quattro, strette in una gabbia d’oro, chiusi in una Rolls Royce rosa, prigionieri della rivoluzione come tutti i capi rivoluzionari, decisero di andare ognuno per la sua strada: a scrivere (splendide) canzonette Paul, a coltivare un personalissimo comunismo pacifista (lo dicono i dossier dell’Fbi) e ad abbracciare il rock’n’roll John, a vivacchiare George e Ringo, gregari o poco più.
Una complessità artistica e umana che non ha avuto eguali nella storia della musica popolare contemporanea, sbocciata in sordina con quell’innocuo Love Me Do il 5 ottobre 1962.