Cultura

Geografie invisibili

Mappature Un percorso di letture sugli atlanti immaginari e l'invenzione di frontiere, non solo sui planisferi ma anche nella scrittura, nell'arte e nel cinema. Dal libro di Giuseppe Lupo a quello di Federico Simonti

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 3 marzo 2015

Ormai tutti sanno che il Mondo non esiste. Ne esistono tanti e tutti insieme, tutti compresenti e tutti sovrapposti. Una catasta di mondi che si schiacciano, che si adeguano, che si incrociano, che si amano e odiano, che si cercano e negano. Forse è un altro modo di raccontare la globalizzazione e rendere più plausibile il fatto che ci si possa trovare in un altro mondo senza essersi accorti di aver varcato il confine. Ma questo timido e generoso relativismo non impedisce che, poi, uno al proprio mondo, o a quel che crede che sia, ci rimanga attaccato e se lo porti dietro, come fa la lumaca. Magari come una ruota di scorta.

Inventarsene uno e tentarne la cartografia, allora, non è certo un’azione di distacco dal mondo né di rifiuto della realtà. Così andrebbe letto un recente album di immagini geografiche scritte (leggi cartoline) messo insieme da Giuseppe Lupo, Atlante immaginario. Nomi e luoghi di una geografia fantasma (Marsilio, pp.157, euro 15). Che sebbene nel titoli e nel sottotitolo calchi un po’ la mano sulla natura fantasiosa, ideale e mentale di questo viaggio, comunica invece uno stare al mondo molto concreto, non realistico né tanto meno giornalistico, bensì radicato in una geografia di cose più o meno disponibili. E infatti del suo guardare e memorizzare i luoghi, colpisce di più l’attenzione che non l’esotismo.

Cartoline in movimento
Vi si alternano spazi privati, memorie letterarie, paesaggi vari, immagini con potere di rievocazione, addirittura voci che riportano a luoghi e idee astratte che, in qualche modo, hanno a che fare con lo spazio. Una vasta gamma di oggetti molto diversi tra loro, raccolti e scansionati con una duplice volontà di catalogo e di registrazione delle occasioni, che apparentemente sfruttano il foglio come se fosse un piano su cui appoggiare qualche cimelio e mettere in mostra qualche souvenir.

In realtà sono cartoline in movimento, per qualche verso non dissimili da quelle di alcune Cartes postales vidéo prodotte da Robert Cahen negli anni ’80, dove un movimento rapido veniva a turbare la logica dell’immagine ferma. Si prenda la numero 37, dedicata a Leonardo da Vinci: si racconta che, passando per via Magenta a Milano, spesso si verifica la magia di vedere lo scienziato-artista alle prese con le sue invenzioni, meravigliose ma insieme inusabili, preveggenti e utopiche.
A una più ravvicinata occhiata, Lupo si accorge che Leonardo sta usando appunti scritti in caratteri misteriosi, che interpreta come lingua segreta, una specie di dialetto nelle cui pieghe soltanto è possibile dire certe cose. Una lingua per la tecnica ormai estinta, del tutto sostituita dalla lingua efficiente e produttiva della tecnologia contemporanea, cresciuta in un altro continente. Come si vede, la pellicola opaca del presente, rimossa, mostra un altro momento della geografia di quel luogo, mentre la differenza temporale lascia libera un’implicita riflessione sulla geopolitica del potere culturale.

Spesso la dinamica geografica, nelle 50 cartoline-pizzino di cui è fatto il libro, crea un valore oppositivo tra locale e globale, dando testimonianza dell’inevitabile esperienza glocale, e per questo non scissa né contraddittoria, alla quale siamo già abituati senza saperlo. Inoltre, la continuità, magari storica, e la contiguità, non solo spaziale, di questi oggetti, non sono più in una logica di necessaria alternativa: i luoghi della storia, veri e presunti veri, emergano come memoria o come racconto, stanno a fianco dei luoghi del presente, concreti quanto gli altri. Insomma, distanze spaziali e distanze temporali convivono come se una delle missioni di questo atlante fosse quella di non cercare di spianare la dimensione labirintica del mondo ma neppure di esaltare le pareti che ne separano i corridoi e le stanze.

La vocazione più genuina dell’insieme dei brevi racconti, perché infine tali sono, fuor di metafora, le cartoline di Lupo, è tuttavia una riflessione sul mondo narrabile e sulle modalità di narrazione. Anzi, più precisamente, l’immaginario in questione sembra per lo più una geografia del mondo scritto e del mondo non scritto (per riprendere il titolo attribuito a una raccolta apocrifa di saggi di Italo Calvino, con cui si voleva sottolineare in lui un interesse cosmografico-antropologico per l’universo della scrittura).
Esiste una dimensione geografica della scrittura e più generalmente del rappresentare, nel senso che gli strumenti della cultura e della comunicazione producono o possono produrre luoghi, anche piuttosto concreti per quanto fatti solo di segni, che si confondono con gli spazi che rappresentano e che influiscono sulla modellazione di quegli spazi.

Anche Lupo sembra sedotto da questa possibilità, e non è il solo. Per esempio, un libro di Federico Simonti, L’invenzione della frontiera. Storia dei confini materiali, politici, simbolici (Odoya, pp. 350, euro 22), porta nel titolo questa suggestione. Giustificata dalla diversità del materiale con il quale traccia alcune della forme contemporanee, ma non solo, di quel confine aperto e indefinito che è la frontiera, entro il quale ci si avanza così come si arretra, a seconda che domini la curiosità o la paura. Arte, cinema, letteratura, fotografia, documentazione storica, filosofia, letteratura politica, concorrono in questo libro a disegnare una riuscita immagine delle specificità delle diverse frontiere costruite nella storia e perduranti nel presente, ora più legate al concetto di linea (confine, border), ora a quello di differenza e distanza tra due spazi contigui, infine a quello di luoghi che sembrano destinati ad essere solo attraversati.

Lo stesso sguardo dell’autore, che spesso è anche personalmente passato per questi luoghi di frontiera, viaggiando e leggendo, diventa uno strumento di assemblaggio, un’invenzione, tanto plausibile quanto più la si senta legata al racconto di un’esperienza invece che a una metodologia di indagine. Come se l’immaginazione geografica potesse anche diventare uno strumento autobiografico.
Del resto, in questo libro di Simonti, il legame tra racconto di sé e rappresentazione dello spazio vissuto si sente in maniera tanto più netta quanto più è noto che il confine e la frontiera sono mezzi con i quali i popoli e le nazioni si sono disegnati (e hanno raccontato) i limiti della propria identità; e allo stesso tempo hanno allontanato e insieme ravvicinato l’immagine dell’altro (il barbaro, l’invasore, il diverso, l’alleato, il nemico, il fratello, il paese dentro o fuori lo spazio comunitario, quello aderente allo Spazio Schengen, etc.), come una cerniera, da aprire e chiudere a seconda dei casi.

Lo spazio della narrazione
Ma non è il caso di inoltrarsi in questa inquietante analogia tra immaginario pubblico e privato, se non per sottolineare il fatto che una forza un po’ oscura trascina lo spazio geografico ad essere ricomposto con le cose della vita. E viceversa, s’intende. Sebbene sia più facile pensare che l’operazione di rendere leggibile lo spazio geografico, cioè il cartografare, sia piuttosto un’astrazione e una semplificazione, una riduzione a segni certi e misurati la varietà analogica con cui le cose appaiono, in realtà questa astrazione avviene anche fuori da una logica di oggettività scientifica. Il raccontare sarà anche aderente a una causalità vissuta e ciò non di meno è una riduzione a convenzioni note, che necessitano di essere comunicate entro un certo margine di condivisione e sicurezza.

Ne potrebbe essere un esempio il fatto che spesso la letteratura ha prodotto, anche non intenzionalmente, una geografia dei luoghi propri non immune da una più generale grammatica che li rende comparabili. Uno studio di qualche anno fa di Carla Alexia Dodi (Ville invisible de la Méditerranée, Paris, L’Harmattan, 2010) aveva addirittura provato a ricomporre la narrazione di tre città diverse e distanti, ma ricucite dal mare mediano, come Napoli, Tangeri e Alessandria d’Egitto, attraverso i romanzi dei loro narratori. E aveva sottolineato come le immagini di ciascuna di esse, per quanto sfuggenti al limite dell’invisibilità, erano state il prodotto di un’estensione delle analogie rispettive e reciproche. Dove anche chi osserva aveva dovuto metterci la sua parte di immaginazione.

Alla fine torna questo dato dell’intersecazione e della sovrapponibilità, che sarà forse un semplice prodotto dell’immaginazione narrativa ma che ha almeno un effetto abbastanza concreto (come effetto letterario non è per niente disprezzabile): quello di togliere e far tacere la paura.

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