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Garaicoa, sospetti sul mondo limpio como un diamante

Garaicoa, sospetti sul mondo limpio como un diamanteCarlos Garaicoa, Campus o la Babel del conocimiento, 2002-’04, courtesy l’artista & Galleria Continua, e Fondazione Merz; foto di Andrea Guermani

A Torino, Fondazione Merz, "El Palacio de las Tres Historias" Cubano classe ’67, Carlos Garaicoa propone un’arte che smonta con sottili paradossi i costrutti ideologici delle utopie: politiche, moderniste, consumiste

Pubblicato circa 7 anni faEdizione del 3 dicembre 2017

Sono due enormi cartelli pubblicitari 6 x 3 montati su delle possenti colonne di metallo ad accogliere il visitatore della personale di Carlos Garaicoa. El Palacio de las Tres Historias, curata da Claudia Gioia e ospitata dalla Fondazione Merz a Torino fino al 4 febbraio all’interno di un progetto nato in una stretta interazione con la città. La mostra apre infatti con due gigantesche insegne realizzate con prismi rotanti che, girando su se stessi, ritmicamente mostrano sulla superficie un’immagine differente. Lo stile iconografico ricorda vagamente quello delle immagini fin de siècle, ma le scritte che si leggono non sono funzionali a promuovere prodotti o servizi per la nuova borghesia che entra nella società dei consumi, quanto invece a porre delle questioni di carattere sottilmente politico. Ecco allora comparire frasi come «Inutil como toda ideologia» (inutile come tutta l’ideologia) oppure «Limpio como un diamante» (pulito come un diamante), con tutti i dettami dello stile enfatico del marketing, ma in forma intelligentemente ambigua: sono concetti che si vuole promuovere o paradossi che è necessario denunciare in una società sempre meno capace di essere critica.

A questi lavori si contrappongono, per le dimensioni minime e per lo stile più asciutto e candidamente modernista, le opere della serie Edificios Parlantes, realizzate su pellicole da disegno dotate della quadrettatura della carta millimetrata. Anche in questo caso vi è una frizione tra il contenuto visivo, di natura architettonica e mirato a ispirare un fiducioso ottimismo, e il testo, che invece sottolinea, grazie a un stile aforistico, alcuni elementi di problematicità – sociale e individuale – della vita contemporanea.

Garaicoa (cubano classe 1967, vive in Spagna e all’Havana), appartiene a quella generazione di artisti che hanno beneficiato delle riforme e dell’apertura all’Occidente praticate dal regime castrista, a partire dagli anni novanta, verso gli intellettuali meno apertamente critici nei confronti del sistema cubano. Questo gli ha permesso di avere la libertà minima per andare all’estero e perseguire una carriera espositiva di particolare rilievo, con partecipazioni a Documenta, alla Biennale di Venezia e di San Paolo, e mostre in musei come il Guggenheim di New York e il Reina Sofia di Madrid.
La matrice cubana e latino-americana del suo lavoro appaiono però ineludibili, e sono evidenti sia nell’interesse verso il modernismo, sotto forma architettonica e inevitabilmente ideologica, sia alla necessità di sviluppare un pensiero artistico che poeticamente si occupi dell’utopia, delle modalità con cui una società immagina e programma se stessa. Questo appare esplicito nel lavoro che occupa la parte centrale della sala principale del museo torinese, il cui titolo è stato adottato per la mostra. El Palacio de las Tres Historias è costituito da due grandi vetrine che ospitano rispettivamente foto e maquette di alcuni dei più celebri edifici razionalisti italiani realizzati durante il Ventennio, come la Casa del Fascio di Giuseppe Terragni, il Sacrario Militare di Oslavia di Ghino Venturi o il palazzo della Civiltà Italiana di Guerrini, Lapadula, Romano. Garaicoa evidenzia paradossalmente sia il respiro di queste architetture che la loro capacità di sintetizzare in forma icastica un pensiero e un ideale che sono stati, fortunatamente, sconfitti dalla Storia: una (presunta) celebrazione finisce così per mostrare i limiti nascosti dietro ogni prospettiva utopica. Sembra quasi che non ci sia spazio ulteriore a quello concesso per le istanze prettamente formali, quasi a dire che l’utopia stessa va presa in considerazione come una stella polare senza mai essere praticata.

Campus o la Babel del conocimiento ne è l’esempio negativo: il modello ligneo di un palazzo della conoscenza con regole e modalità per classificare i livelli stessi di sapere che finiscono per agire come un universo concentrazionario, in una sorta di panopticon in cui vige una tassonomia stretta e liberticida. L’architettura, che affonda le sue ragioni nella necessità di costruire uno spazio di rifugio, si trasforma per eterogenesi dei fini nel tentativo di imporre una visione del mondo. Come scrive Claudia Gioia in catalogo, «Garaicoa guarda le città, le architetture e i sogni sottesi, quelli dismessi e quelli ancora realizzabili; ne legge le trame, le offese e i ricordi incancellabili e poi con instancabile creatività traccia altre prospettive, innesta vecchio e futuro, disegna nuove linee di fuga e cerca il comune e la moltitudine quali soggetti di un incessante divenire altro».
Sobre el bien y el mal se han escrito miles de páginas racconta invece il tentativo di rendere in forma percettiva (sulla scala dei grigi) le differenti sfumature che possono stare tra gli estremi che definiscono una particolare modalità. A un facile dualismo manicheo l’artista cubano oppone la complessità di tante pagine di colore degradante, ciascuna delle quali irriconoscibile dalla precedente o dalla successiva: dopo poche sfumature anche una bianca colomba può diventare un’aquila scura, violenta e rapace. Un monito a fare un passo indietro per coloro che si illudono di possedere gli schemi con cui poter interpretare tutto ciò che vedono, o che hanno l’arroganza di sapere sempre da quale parte stare.

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