Visioni

Futuristico paesaggio con «doppio» mancante nei rimossi di Seoul

Futuristico paesaggio con «doppio» mancante nei rimossi di SeoulSopra una scena di «A tale of cinema» di Hong Sang-soo (2005)

Cinema con vista/4 I film perduti realizzati nell’occupazione giapponese, le immagini che «documentano» la ricostruzione

Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 25 agosto 2022

Non servono 12 ore di volo per andare a Seoul. Già nei primi minuti di The Host (2006) di Bong Joon-ho potete sdraiarvi sulle rive erbose del fiume Han e godervi uno snack al chiosco di Park Hee-bong. Un consiglio: non avvicinatevi troppo all’acqua. Se il fiume vi inquieta e preferite visitare i quartieri in collina, lo stesso Bong Joon-ho vi accompagna insieme alla famiglia Kim nell’elegante residenza dei Park (Parasite, 2019). Infine, una visita a Seoul non sarebbe riuscita senza sedersi per ore davanti ad una selva di piatti e di birre in uno dei ristoranti dove si riuniscono i personaggi di Hong Sang-soo.

ANCHE SE, Hong Sang-soo villeggia più volentieri nei piccoli borghi costieri o in montagna. Ma alcuni dei suoi film più belli si impegnano proprio a descrivere la vita nella capitale, con quello spirito riflessivo proprio del cinema postmoderno e tipico delle Nouvelle vague che consiste nel dire: la città ci appartiene. La strana sensazione che si prova vedendo i suoi primi film è quella di sentirsi immediatamente un abitante della Seoul cinematografica da lui creata. Mentre i personaggi con cui ci identifichiamo così facilmente sembrano al contrario sempre un po’ disorientati, come se la scoprissero sul momento.
A Tale of Cinema (2005) comincia con un’inquadratura della Nansan Tower, la torre della televisione

«Lovers of Woomuk-Baemi» di Jang Sun-woo (1990)

terminata all’inizio degli anni Settanta nel centro della città. Un semplice stacco, ed eccoci all’uscita d’un negozietto di strumenti musicali, dove lo studente Sangwon saluta il fratello e, per evitare di incrociarlo, si incammina in un lungo giro alla fine del quale si imbatte nella sua ex Yongsil (Uhm Ji-won). Ammazzando il tempo in attesa che lei finisca il turno, Sangwon si siede in un teatro. I due si ritrovano poi a gironzolare per il centro, la notte è ormai calata e ci ritroviamo al punto di partenza: ai piedi della Nansan Tower.

QUANDO si va a visitare una città, non si comincia dalla fine. Si vogliono vedere per prima cosa le origini, le sue fondazioni, la storia antica. In questo caso ci si deve armare della bella guida di Adriano Aprà, e del suo saggio sul cinema sudcoreano (in Storia del cinema mondiale, Einaudi, vol IV). Nulla resta, se non i titoli, del cinema coreano durante l’occupazione giapponese.
La produzione nazionale si ricostruisce nel sud militarizzato a partire dalla seconda metà degli anni ’50. Si tratta di un cinema di genere, attentamente sorvegliato, ossessivamente anticomunista quando tratta del presente, per lo più realizzato negli studi della famosa avenue Chungmuro – dove per altro si trova la prima sala aperta in corea, il cinema Dansungsaa (1907), ancora oggi in funzione, anche se nulla resta del vecchio edificio.

Alcuni registi mostrano quelle parti della città che la prosperità vuole nascondere
Seoul devastata nel dopoguerra è visibile nei film di uno dei padri del cinema coreano: Yu Hyun-mok. In particolare in Obaltan (1961, in inglese Aimless bullet), la cui sinossi somiglia ad un incubo: un modesto contabile che vive con la madre si aggira per la città disperato e in preda al mal di denti.
Seguendo la storia della prolifica cinematografia del Sud tra gli anni Sessanta e Ottanta, ci si può fare da un lato un’idea abbastanza precisa di come Seoul sia stata ricostruita, diventando la città modernissima di oggi.

UNA TENDENZA del cinema coreano, che si è accentuata con la democratizzazione del paese alla fine degli anni ’80, è quella di far riemergere nel cinema quella parte della città che l’operosa prosperità della nazione leader dell’elettronica ha tendenza a nascondere. Nei film di Jang Sun-woo per esempio si trova uno spaccato della vita nella periferia operaia (Lovers of Woomuk-Baemi, 1990), o il ritratto della vita dei ragazzi di strada e dei mendicanti di Seoul (One fine day, 1997).
D’altra parte, tutta questa visibilità non fa che aumentare l’impressione di una parte sempre mancante. Andare a Seoul con il cinema vuol dire chiedersi, come posso vedere Pyongyang? Recarsi fisicamente nella capitale del Nord è quasi altrettanto difficile che farlo cinematograficamente.

Del resto, a parte qualche eccezione, per vedere i film nordcoreani bisogna attraversare la frontiera più sorvegliata del mondo. Qualcuno c’è riuscito. Sulla materia circolano alcune storie, quasi delle leggende. Una è quella di Jeremy Segay che, da delegato della Quinzaine des réalisateurs, è riuscito a ottenere un invito ufficiale al festival internazionale di Pyongyang. Più facile a dirsi che a farsi. Si tratta di prendere contatto a Parigi, via uno strano documentarista americano, con alcuni fantomatici diplomatici del Nord. Darsi un appuntamento, sperare che qualcuno si presenti. Dirsi esperti di cinema ma soprattutto evitare di presentarsi come giornalisti. Infine aspettare, un mese, due, tre.

IMPROVVISAMENTE, quando ormai si erano perse le speranze, ricevere una chiamata: il viaggio è confermato. In aereo fino a Pechino, poi in treno. La prima parte è semplice quanto la seconda incerta. Alla frontiera, i soldati sono irremovibili: non si passa. A nulla serve parlare di inviti, di festival, dei due diplomatici. Non ci si deve arrendere. Bisogna aspettare ancora. Piano piano, qualche spiraglio si apre, a forza di denaro, di sigarette, di pacchi di zucchero e della pazienza della presidente di Unifrance in Cina. Quando infine si attraversa il confine, si è al tempo stesso sollevati e inquieti. Il festival dura quindici giorni, un’eternità rispetto alla programmazione che consta di un pugno di film nordcoreani, di alcuni film dei paesi amici (Iran, Venezuela…) e di qualche film francese ramingo. La città somiglia al sogno o meglio all’incubo di Metropolis: da un lato l’ozioso aeropago per l’élite, dall’altro i cubi di cemento per gli operai che vanno e vengono dal lavoro senza mai alzare lo sguardo. Per tutto il soggiorno, si resta in un’isola al centro dell’immensa città cubista.
A parte i vari monumenti alla patria, i mausolei del leader e i musei della guerra, non c’è possibilità di muoversi. Si può rimanere in albergo e leggere. Tutti i libri che ci si era portati sono stati sequestrati alla frontiera; per fortuna, all’arrivo si è ricevuto in regalo il saggio, involontariamente esilarante, del dittatore cinefilo Kim Jong-un: Dell’arte cinematografica (1973). È il luogo più remoto dove il cinema vi possa portare.

Fine – le puntate precedenti sono state pubblicate il 4, 11 e 18 agosto 2022.

Molti dei film nordcoreani che circolano nell’Ovest sono dei documentari di propaganda. Tra le finzioni, il tema più ricorrente è quello dell’occupazione giapponese (per esempio in «Dura giovinezza» di Nam-Son Tsoi del 1960, di cui circola in rete una versione doppiata in russo) e il melodramma musicale in technicolor «La ragazza con il fiore», Ik Kyu Choe (1972). L’altro tema è ovviamente la grande guerra fratricida. Due film sempre di Ik Kyu Choe: «Sulla ferrovia» e «Mare di sangue». Un film del 1978 che molti nordcoreani conoscono a memoria è invece «Centravanti» di Pak Chang Song & Kim Kil-In, con varie allusioni alla storica vittoria della squadra nazionale sugli azzurri ai mondiali in Inghilterra nel 1966. Nel 2007, Pretty Picture ha distribuito nelle sale in Francia l’ingenuo melò di Jang In-Hak «Diario di una studentessa». Una preziosa bottiglia gettata in mare, sfortunatamente accolta con sorprendente cinismo.Tra propaganda e melò, le produzioni nordcoreane oltre confine

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