Al cinema non meno che nella vita, non esiste un solo modo per entrare in una città. Si può arrivare dal cielo e osservarne il colpo d’occhio. O in treno, tagliandone il profilo fino al cuore. Infine, se si tratta di un porto, si può arrivare dal mare. Nel caso di Odessa, è una scelta obbligata.
Tutte le città portuali sono concepite per essere contemplate dal mare. Odessa non sfugge alla regola, ma la inverte. Qui è il mare a fare da palcoscenico. Mentre la grande scalinata Richelieu che domina il porto è come la platea d’un teatro antico. Sergej Ejzenštejn esplora le possibilità di questa immensa scenografia nel suo film più celebre: La Corazzata Potëmkin. Girato nel 1925 per celebrare il ventennale della rivoluzione sconfitta del 1905, il Potëmkin è il suo secondo film, dopo il successo di Sciopero (1924). La storia in cinque atti comincia proprio in mare, sulla corazzata della marina zarista Potëmkin. È il momento della mensa, i marinai protestano per la carne brulicante di vermi. Gli ufficiali negano l’evidenza. Ne nasce una rivolta che, brutalmente repressa, sfocia in un ammutinamento.

«La Corazzata Potëmkin»

LA RIVOLUZIONE, per Ejzenštejn, non è un concetto astratto. Il conflitto di classe si manifesta nell’evidente contrasto tra il ventre vuoto dei marinai e quello pieno degli ufficiali. Questo materialismo elementare evoca la Rivoluzione per eccellenza, quella francese del 1789 nella quale, si ricorderà, l’odiata regina Maria Antonietta avrebbe fatto da scintilla rispondendo alle richieste del popolo affamato con la frase sprezzante: «Se non c’è pane, che mangino brioche!».
Che cosa è cambiato da allora? Poco. Il cibo è ancora l’oggetto del contendere. Odessa è la porta attraverso il quale milioni di tonnellate di cereali coltivati in Ucraina giungono in Europa, in Africa, nel Medio Oriente. Dopo la criminale invasione Russa del 24 febbraio, l’approvvigionamento mondiale è in pericolo. Il regime di Putin usa spregiudicatamente il grano come arma, senza curarsi dei milioni di morti che la penuria di grano provocherà in Africa.
Tornando al Potëmkin: fino al secondo atto, tutto si è svolto sulla corazzata dove il punto di vista dei marinai si oppone a quello degli ufficiali. Ejzenštejn ne fa sorgere un terzo, che non tarda a schierarsi. È quello della città, che fino ad allora è stata come un contro-campo invisibile del dramma, e che nel terzo atto entra in scena. I marinai espongono il corpo senza vita del loro capo Vakoulintchouk. Un agitatore del governo cerca allora di far cadere la responsabilità sulla comunità ebraica – un vizio antico, quello di accusare gli altri dei propri crimini, che il governo russo non ha perso. Ma la manovra fallisce. Il popolo di Odessa acclama i marinai. Nel quarto atto, una selva di barche piene di vettovaglie va a rifocillare i rivoltosi. Arriva infine il quinto atto, la celebre scena della scalinata, studiata in ogni corso di cinema, evocata in mille modi – tra gli altri, da Brian de Palma nel finale de Gli Intoccabili. Il popolo di Odessa è disseminato sui gradoni per salutare i suoi eroi. All’improvviso, dalla sommità della scalinata, appaiono i soldati dello zar. Disposti in doppia fila e con le baionette abbassate, avanzano falciando la folla. L’immagine è costruita sul modello del famoso 3 maggio 1808 di Goya. Filmati di schiena, i soldati avanzano come fossero automi. Per contrasto, il pathos appare sui volti straziati delle vittime.

Kira Muratova
Come possono convivere la cultura e questo orrore? Deve far parte della natura animalesca dell’uomo. C’è qualcosa che non permette di cambiare

ALL’INDOMANI della rivoluzione d’Ottobre, gli studios avevano abbandonato Mosca per installarsi in Crimea, con l’idea di creare una sorta di Hollywood sul Mar Nero. Ma presto la guerra civile obbliga ciò che resta del cinema russo a emigrare in Europa e in America. Lo Stato sovietico fonda i propri teatri di posa nel 1919, proprio ad Odessa. Nel corso degli anni, saranno girati centinaia di lungometraggi. Tra questi, 364 contengono immagini della città – il conto è stato fatto da un appassionato di nome Oleg Yelagin che ha pazientemente mappato le location di Odessa. Solo in una piccola parte di essi, la storia è ambientata però ad Odessa. In epoca sovietica si filma qui per tre ragioni, la prima è il clima mite. Quando serve passare dall’inverno all’estate, si gira in continuità a Mosca e poi a Odessa. Secondo motivo, il basso costo delle produzioni. Infine, per la varietà delle architetture. Odessa è considerata come la più occidentale delle città dell’ex Unione sovietica. Il Ponte Sabaneev somiglia nella struttura all’Oakland Bay Bridge di San Francisco. La passeggiata Vorontsovsky ricorda gli eleganti hotel del lungomare di Nizza, il parco Devolanovskiy fa pensare al 12o arrondissement di Parigi. Tutti questi luoghi sono stati ampiamente sfruttati.
Per visitare quest’Odessa «occidentale», si può riscoprire il poliziesco Dejà vu di Juliusz Machulski. Il film è del 1990, ma l’argomento ci fa rito

«Sindrome astenica» di Kira Muratova

rnare al 1925, l’anno della produzione del Potëmkin. Il gangster Polak – di nome e di fatto –, interpretato da Jerzy Stuhr, fugge da Chicago dove la mafia lo vuole morto. Sbarca ad Odessa, ma un incidente gli provoca delle amnesie e dei dejà vu. Le città di Odessa e di Chicago, già sovrapposte nella realizzazione del film – utilizzando Odessa come location per entrambi gli ambienti – si mescolano poi anche nella finzione.
Ma una città non è solo il suo esterno. La sua anima non può essere colta contentandosi di osservarne i monumenti, le vie, le piazze. Il film che più ha cristallizzato la tonalità emotiva di Odessa è un altro lavoro del 1990, si tratta dello splendido Sindrome astenica della cineasta ucraina Kira Muratova.

LA PRIMA PARTE, in bianco e nero, ritrae un’infermiera di nome Natasha che, in seguito alla morte del marito, esce di senno. In una delle scene più impressionanti di un film che ne contiene diverse, e che per molti versi ricorda la scalinata di Ejzenštejn, Natasha avanza controcorrente tra la folla scontrandosi volontariamente contro chi le viene incontro. Si scopre poi che questa prima parte è un film nel film.
La seconda parte, a colori, ha come protagonista un insegnante narcolettico che si addormenta al cinema, nella metropolitana, e durante una riunione a scuola. Muratova è stata una delle più interessanti voci del cinema sovietico, emersa districandosi tra la censura e la mediocrità del regime. Il suo film e quello di Ejzenštejn sembrano guardarci dalle scale di Odessa, come se si sporgessero dal bordo estremo d’un età sepolta.

Una breve filmografia, nel nome di Odisseo
La città di Odessa porta il nome del più famoso dei viaggiatori. Non sono pochi i cineasti ad aver giocato con la sua dimensione suggestiva. Nel suo terzo e ultimo movimento, chiamato «nos humanités», il viaggio di «Film Socialisme» (Jean-Luc Godard, 2010) tocca sei città portuali fondatrici della cultura mediterranea, spingendosi, con Odessa, fino al Mar Nero. All’inizio della «Leggenda del pianista sull’oceano» (1998), Tim Roth è seduto sulla scalinata Richelieu. Un recente film di Valeriy Todorovskiy e Irina Tretyakova si chiama semplicemente «Odessa» e comincia con un’ondata di calore. È gelido invece il primo lungometraggio di James Gray, girato a New York in una comunità di ebrei ucraini di Brooklyn: «Little Odessa». C’è al contrario chi ne ha dissimulato l’identità per farla somigliare ad altre città: alla Parigi medievale (nell’adattamento sovietico de «I Tre Moschettieri»), a Budapest («Transporter-3»), a Chicago («Dejà vu»). Ma per tutti, Odessa rimarrà la città de «La Corazzata Potëmkin».