Cultura

Fra modernità e nobile gastronomia: il gusto e le sue contaminazioni

Fra modernità e nobile gastronomia: il gusto e le sue contaminazioni

Scaffale «L’ultimo dei monsù», il romanzo-memoir scritto da Fabrizia Lanza e pubblicato da Mondadori. L'autrice tornata in Sicilia, «cura» a Regaleali la scuola di cucina fondata dalla madre Anna

Pubblicato circa un anno faEdizione del 11 agosto 2023

Contravvenendo una tantum a una regola aurea del giornalismo di un tempo (mai usare la prima persona e parlare dei fatti propri), ricordo che mio padre, genovese da settantasette generazioni e buon cuoco di casa, metteva una scheggia di burro nel pesto. Orrore, orrore! Eppure, nella gloriosa Cuciniera genovese di G.B. e Giovanni Ratto, prima edizione 1863, la ricetta del Battuto alla genovese (Pèsto) inizia così: «Prendete uno spicchio d’aglio, basilico (baxaicö), formaggio sardo e parmigiano grattugiati e mescolati insieme e dei pignoli e pestate il tutto in un mortaio con poco burro finché sia ridotto in pasta». La ricetta prevede poi «olio fino in abbondanza», ma il burro, inutile negarlo, c’è. Io però (e qui chiudo con la prima persona) non l’ho trovato in nessuno dei ricettari contemporanei che ho consultato, di carta o in rete.

LA PREMESSA SERVE a ribadire ciò che dovrebbe essere chiaro: che la tradizione non è un codice rigido, e questo è vero soprattutto in cucina. Il che non ci impedisce di ridere dei turisti convinti di accostarsi alla «autentica» gastronomia italiana quando ordinano gli «spaghetti alla bolognese» o di scandalizzarci per la pizza hawaiana ananas e prosciutto o di discutere della carbonara, oggetto di «revisioni» da molti considerate oltraggiose.
Il rapporto con il cibo è complesso, tanto più nell’«Italia delle cento cucine e delle mille ricette», scrivono Alberto Capatti e Massimo Montanari all’inizio di un testo, La cucina italiana (Laterza 1999), che ancora oggi è un punto di riferimento se si vuol comprendere in cosa consista la nostra cultura gastronomica. Lo sa bene Fabrizia Lanza, che nella bella nota con cui termina il suo L’ultimo dei monsù (Mondadori 2023, pp. 185, euro 18,50) lo definisce «indispensabile per conoscere la diffusione del gusto e della cucina francese in Italia» (e molto altro).
«Romanzo», è scritto sulla copertina. Ma «personaggi e luoghi sono esattamente quelli che l’autrice ha conosciuto o di cui ha avuto testimonianza diretta», anche se, questo sì, «si è presa la libertà di ricostruire, di legare; di montare», e dunque «la logica sequenza dei fatti» è sua, «come è sua la realtà che ne discende attraverso la narrazione». Legare, montare: termini usati in cucina per un libro che trova nel cibo il filo conduttore e la ragione del titolo, essendo i «monsù» (storpiatura di monsieur) i cuochi, in origine francesi, al servizio delle grandi famiglie siciliane.
Di uno in particolare, pare volerci raccontare Fabrizia Lanza, quel Mario Lo Menzo che per mezzo secolo ha lavorato a casa dei suoi nonni materni, Giuseppe Tasca Lanza e Francesca Paola Cammarata, i cui nomi troviamo nell’albero genealogico in apertura di volume, tutto un intreccio di matrimoni e i nomi ricorrenti dalla metà del Settecento a oggi («per secoli si sono sposati tra di loro per non disperdere il patrimonio producendo da sangue riciclato una progenie stentata, deforme, irrequieta», scrive spietata l’autrice).

PIÙ CHE IL PROTAGONISTA, però, Mario – così semplicemente viene chiamato nel libro – pare l’appiglio cui Lanza si afferra quando scrive di Sicilia e della sua famiglia: «Precipito in un mondo infinito che mi attrae come un magnete e che ho bisogno di sondare in ogni sua piega», scrive all’inizio – una frase che si spiega nell’epilogo, quando Il Gattopardo, citato di sfuggita, si fa pietra di paragone di quell’antinomia fra passato e presente in cui la Sicilia pare imprigionata: «La domanda è sempre la stessa: come fare per invertire il senso insostenibile di quel ‘tutto deve cambiare affinché nulla cambi’? Negare? Distruggere? Ignorare? Mangiare tutti insieme la fondue bourguignonne? Cosa posso fare io di quel che è stato? Tuffarmici dentro come un palombaro e riportare alla luce le storie e i sapori? Il rischio è di cadere nella cultura del reperto, l’odiosa nostalgia, il museo, il catalogo, il culto delle ceneri – come scrive Mahler – e non la custodia del fuoco».
Ma come possiamo custodire il fuoco senza venerare le ceneri, se il passato ci tiene prigionieri? È questa, in fondo, la domanda che si pone l’autrice, adottando come «tecnica la contaminazione e la sovrapposizione di tempo e di luogo» – parole usate a suo tempo per Il Gattopardo da Gioacchino Lanza Tomasi (zio dell’autrice e figlio adottivo di Tomasi di Lampedusa), ma appropriate per L’ultimo dei monsù. Così nella stessa pagina i surgelati Findus, simbolo di una modernità arrivata a Palermo nel dopoguerra, coesistono con la cucina grande che nel Settecento ospitava la mensa dei signori nel Palazzo Ducale di Castelvetrano.

FUGGITA A SUO TEMPO dall’isola e divenuta storica dell’arte (formazione di cui portano segni l’attenzione al lessico e il gusto per le descrizioni), Fabrizia Lanza è poi tornata e gestisce a Regaleali la scuola di cucina fondata da sua madre Anna, autrice di Cuore di Sicilia, un ricettario che fu best-seller negli Stati Uniti negli anni Novanta e che Guido Tommasi Editore ha pubblicato in Italia nel 2008. Qui, pagina 162, troviamo una foto «quasi araldica» di Mario, toque bianca in testa, due mestoli incrociati a mo’ di spade. Ma non facciamoci ingannare, avverte Fabrizia Lanza. Con il ritornello imperante del «tipico e tradizionale», Mario non aveva niente a che fare: la sua etichetta anacronistica ed eccentrica di ultimo monsù era solo «un punto fermo nell’immaginario di molti».
A fare la tradizione, semmai, sono «le intenzioni e le relazioni – il voler costruire, attraverso di esse, una trama di senso». Ne saremo capaci?

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