Alias Domenica

Fra indagine antropologica e travelogue Antony Sattin segue i popoli in cammino

Fra indagine antropologica e travelogue Antony Sattin segue i popoli in cammino«Yarrkalpa», (Territori di caccia), realizzato da Kumpaya Girgirba, Yikartu Bumba, Kanu Nancy Taylor, Ngamaru Bidu, Janice Yuwali Nixon, Reena Rogers, Thelma Judson and Nola Ngalangka Taylor (artisti Martumili)

Saggi Un nobile omaggio a una idea alternativa di civiltà, permeato da una certa nostalgia romantica: «Nomadi», da Neri Pozza

Pubblicato 12 mesi faEdizione del 15 ottobre 2023

«Perché divento irrequieto dopo un mese nello stesso posto, insopportabile dopo due?»: la celebre frase che Bruce Chatwin pronunciò all’indomani del suo abbandono degli studi di archeologia per dedicarsi all’impresa, rimasta incompiuta, di una storia del nomadismo, viene idealmente ripreso da Antony Sattin nel suo Nomadi I popoli in cammino che hanno plasmato le nostre civiltà (traduzione di Alessandra Manzi, Neri Pozza, pp. 425, € 28,00). Fedele a una tradizione tipicamente anglosassone, che  risale a viaggiatori e letterati quali Robert Byron, Patrick Leigh Fermor e lo stesso Chatwin, Sattin lega la storia dei popoli in movimento al rapporto con la natura, contrapponendo le grandi civiltà, per definizione stanziali, ad altrettanto grandi forme di civilizzazione che, in quanto migranti o vagabonde, hanno lasciato poche tracce.

A metà strada tra racconto di viaggio e indagine antropologica, il libro si avventura nella storia delle grandi migrazioni ripercorrendone l’epopea degli ultimi dodicimila anni: l’arco temporale è così ampio da escludere un’analisi storica approfondita e metodologicamente appropriata, ma viene  ripercorso da Sattin con grande coerenza e con una scrupolosa ricerca delle orme lasciate dai nomadi in ogni parte della Terra. Consapevole del progetto pressoché impossibile di scrivere la storia di coloro che non hanno trasmesso documenti scritti, il libro indaga minuziosamente le testimonianze, spesso di parte avversa, per ricostruire le imprese delle genti che, per scelta o per necessità, scelgono una vita errante, lasciando ai posteri «una storia dei senza storia».

«I nomadi – ricorda Sattin citando una frase tranchant di Gilles Deleuze – non hanno storia perché hanno dalla loro solo la geografia». Questo luogo comune presupponeva l’idea di un lineare progresso storico che avrebbe portato al superamento della vita vagabonda a vantaggio della formazione dello Stato, garante, per lo meno formalmente, di diritti e libertà per i propri cittadini. Fuori dalla civitas veniva proiettata l’ombra lunga di quella barbarie premoderna che era rappresentata dal nomadismo.

La linearità del progresso storico che ha dominato le ricostruzioni degli ultimi due secoli viene paragonata da Sattin a una «autostrada della storia»: felice formula per indicare (e contestare) quella filosofia della storia che conduceva inesorabilmente e teleologicamente al trionfo dell’Occidente cristiano. Se percorrere «l’autostrada della storia» conduce dalla fondazione di grandi città e Imperi come Uruk, Babilonia, Roma o Chang’an (l’attuale Xian) e alle potenze statali di oggi, il cammino seguito da Sattin, più impervio e accidentato, ci guida in territori sconosciuti e in civiltà rimosse: dal paradigmatico sito archeologico di Göbekli Tepe, nell’attuale Turchia, testimone di una grandiosa civiltà nomade che già intorno al 10.000 a.C. aveva eretto un tempio votivo e scolpito statue in pietra calcarea e ossidiana, passando per l’alleanza delle genti mongole di Gengis Khan e per l’antico popolo persiano, fino ai «barbari» che contribuirono alla caduta dell’Impero romano e alle tribù nordamericane quasi totalmente sterminate dall’arrivo degli Europei.

Se per lo storico romano Ammiano Marcellino gli Unni di Attila erano una «razza selvaggia oltre ogni limite», per i popoli nomadi asiatici come gli Xiongnu o per i loro sodali occidentali, gli Sciti, erano i Greci, i Romani e i Cinesi a essere considerati barbari, in quanto, allontanatisi dal mondo naturale e dalla libertà di movimento, erano stati «abbandonati dal cielo». Tra Roma e Chang’an, i poli estremi di due grandi Imperi sedentari, le popolazioni nomadi garantirono per secoli una sorta di ordine globale tra il Mediterraneo e il mar della Cina, promotore di rinnovamento sociale e di una vita più rispettosa degli equilibri naturali basata sull’archetipo della circolarità del processo storico. Con il XVIII e il XIX secolo e lo schiudersi dell’idea di progresso, la parabola dell’epopea nomade inizia la sua fase discendente, al punto che il termine non è nemmeno menzionato nei primi dizionari di lingue europee o nelle coeve opere di erudizione. Il «destino manifesto» di una missione civilizzatrice stabilita direttamente da Dio spinse i coloni americani a imporsi, grazie alle loro armi e alla tecnologia, sulle restanti popolazioni nomadi, fra cui le quasi seicento tribù native americane verso le quali fu perpetrato ciò che oggi si definisce un vero e proprio genocidio. Ma la hybris tutta moderna implicata nel dominio della natura, che risale almeno a Francis Bacon e alla rivoluzione scientifica, trova la sua nemesi in coloro i quali, da Jean-Jacques Rousseau a Henry-David Thoreau, senza demonizzare la modernità, mettono in guardia dalle sue insidie temendo la vita sedentaria e indicando nel ritorno alla natura una via di uscita dal dominio del denaro e del profitto.

Sattin si inoltra idealmente fino all’oggi, quando nuove ondate migratorie contribuiscono a plasmare una inedita geografia globale, mettendo in discussione il suo ordine e portando gli Stati occidentali e del Nord del mondo a una scomposta reazione liberticida. Il rispetto della natura, la necessità di spostarsi e il riconoscimento del valore reale delle cose, elementi che Sattin individua come caratterizzanti la cultura nomade, riemergono nei movimenti non violenti (come Extinction Rebellion) che oggi rispondono alla devastazione ecologica a fini di profitto, promuovendo un nuovo stile di vita non più basato sul mito della crescita.

Permeato dalla romanticheggiante nostalgia di una presunta «sublime armonia del mondo naturale» e di un paradiso perduto abitato da uomini liberi e vagabondi che non conoscevano forme statuali di dominio – il che è difficilmente dimostrabile – il volume non convince anche quando parla di Stato di diritto o addirittura di democrazia presso i nomadi. Tuttavia, tra le sua pagine si svolge un avvincente viaggio tra le popolazioni itineranti e vagabonde, con un nobile omaggio a un’idea alternativa di civiltà, non necessariamente rinchiusa tra le mura di uno Stato e votata alla conquista e al dominio, ma aperta agli scambi, alla cooperazione e a un maggior rispetto della natura. Né saggio storico né trattato antropologico, Nomadi è dunque un’intensa traversata millenaria tra migranti e senza patria, alla guida di un loro irrequieto compagno di strada.

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento