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Fortini, dialogo fecondo fra stile e storia, poesia e pensiero

Fortini, dialogo fecondo fra stile e storia, poesia e pensieroAppennino invernale di Franco Fortini era riprodotto sulla sovraccoperta di F. F., Il ladro di ciliege, Einaudi 1982

Poesia italiana Frénaud, Soyfer, Altolaguirre, il sempre caro Orazio, il Poema del disgelo di Wazik, l’«inferno» di Haushofer... Nello «Specchio» Traduzioni disperse e inedite di Franco Fortini «ladro di ciliege», a cura di Luca Lenzini

Pubblicato 20 giorni faEdizione del 15 settembre 2024

Il riconoscimento dell’importanza del ruolo di Franco Fortini nella letteratura e nella cultura italiana del Novecento procede sicuramente dalle ricerche condotte dagli studiosi nelle sedi opportune e dalla pubblicazione e ripubblicazione delle sue opere. È quanto possiamo apprendere da studiosi come Luca Lenzini, tra i più fini interpreti di Fortini, coordinatore del Centro di ricerca intitolato al poeta e della rivista online «L’ospite ingrato» che ne diffonde studi e iniziative. Già autore di alcuni importanti studi raccolti in volume (a cominciare da Il poeta di nome Fortini, che uscì da Manni nel 1999) e miscellanee, Lenzini ha raccolto le sue ricerche più recenti in un volume che trova nella sobrietà del titolo – Note di servizio per Franco Fortini (Pacini Editore «Strumenti di filologia e critica», pp. 176, euro 17,00) – l’istanza fondativa di una lunga fedeltà a un’idea di letteratura che procede dall’osservazione puntuale del dettaglio e delle sfumature di un’opera irriducibile a ogni definitiva verità, più che ai riti encomiastici di totalizzanti chiavi di lettura.

Sono ricognizioni ed escursioni critiche sul Fortini manzoniano, su quello saggista e su quello (forse meno noto) «enciclopedico», sulla ineclissata attualità de I cani del Sinai, sul sodalizio con Sereni, sul valore insomma di una poesia che (ricorda Lenzini nell’appassionante saggio conclusivo, Per un profilo militante) non si piega di fronte ai compromessi con la storia, anzi si propone in una sua vigile, non negoziabile «militanza» politica, così estendendo l’orizzonte della sua scrittura, e protraendone la costanza etica e intellettuale, oltre i confini meramente letterari: «Allora in quello che scrivo o che altri scriverà – amava puntualizzare il poeta – potrà essere, come la lima d’acciaio nascosta nella pagnotta dell’ergastolano, una parte metallica. Che possa appropriarsene solo chi l’abbia chiesta e meritata»).

Scrivere, dunque. «La poesia / non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi», sono i versi finali di Traducendo Brecht, una poesia che annoda emblematicamente il lavoro del traduttore e il momento più propriamente creativo, e ci consente di comprendere come il recupero, sia pure a lacerti e a stralci, di quel mandato sociale del poeta già perduto ai primordi della modernità (e non poco favoleggiato), proceda da una chiara coscienza degli obiettivi e delle questioni che pone l’esercizio del tradurre e dei suoi effetti benefici, non solo in termini di raffinamento tecnico e di confronto linguistico-culturale, ma anche in vista di una rilegittimazione ontologica della intentio poetica, dal momento che la traduzione – sosterrà Fortini in un saggio del 1962 su Traduzione e rifacimento – «riesce a rimuovere uno dei dati fondamentali della condizione poetica postromantica, e cioè l’assenza di legittimità e di mandato sociale».

Beninteso, questo varrebbe anche per la scrittura critica e saggistica, come si evince dai «dialoghi sui classici italiani» recentemente editi a cura di Donatello Santarone (Le rose dell’abisso, Bordeaux, Roma 2024), di cui si è occupato Gabriele Fichera sulle pagine del manifesto lo scorso 10 agosto; ma non pare inutile sottolineare, nel caso di Fortini, l’apporto della traduzione che, di là dal numero di autori affrontati, conosce un significativo passaggio antologico con Il ladro di ciliege e altre versioni di poesia (Einaudi, 1982), fuori dal quale restano però molti altri testi, confluiti ora, grazie all’ottima curatela di Lenzini, nelle Traduzioni disperse e inedite (Mondadori «Lo Specchio», pp. XVII-302, euro 18,00), e che opportunamente viene disposto secondo un percorso testuale ordinato cronologicamente in sei sezioni (L’onore dei poeti. 1944-1951; Dalla Cina, 1955; Il poema del “disgelo”. Polonia 1955; I Surrealisti. 1959; Penultime e ultime. 1965-1990; Inedite).

In questo variegato mosaico di autori risalta l’impegno di uno scrittore non tanto a fissare una sua costellazione ideale di autori, quanto a lasciare – come si vede sin dalle prime prove giovanili – che la storia parli attraverso le voci di poeti maggiori o minori, famosi e sconosciuti, antichi e viventi, capaci ad ogni modo di trascendere la «tradizione» rispetto alla quale i singoli testi andrebbero collocati e di affondare la loro parola nel presente, come (solo per fare un esempio) il bellissimo Lamento delle filatrici di Chrétien de Troyes, tratto dall’Yvain, uscito sul «Politecnico», n. 4 (20 ottobre 1945).

La lista dei nomi è lunga e purtroppo non è possibile scorrerla al completo in questa sede senza il desiderio di entrare nel merito dei diversi testi, soffermandosi sull’occasione dell’incontro con i singoli autori (da un André Frénaud a un Jura Soyfer o a un Manuel Altolaguirre; dai lontani e non sempre identificati, per non dire immaginari, autori cinesi, al poeta polacco Adam Wazik, il cui Poema del disgelo vide la luce alla vigilia della rivolta di Poznan del 1956; da un classico, e da sempre caro, come Orazio a un nome rimbalzato dall’inferno della guerra, quale Albrecht Haushofer; fino a Gyula Illyés, Jean-Charles Vegliante, Giacomo Noventa e via dicendo), e quindi sulle soluzioni formali adottate nella traduzione e sul significato di queste brevi e intense tessere nel disegno complessivo dell’opera di Fortini.

Un nuovo importante capitolo che dimostra il valore assegnato da Fortini, già sulle orme di Goethe, al valore interculturale di ogni traduzione (e in particolare di quella più delicata, della poesia), che proietta il dialogo imprescindibile e profondo fra il e l’altro da sé, non in uno specchio (an)estetizzante e in fondo autoreferenziale, ma in un fecondo contraddittorio tra stile e storia, poesia e pensiero, parola e afasia, essere e niente. «Fortini, a ben vedere, ha combattuto per tutta l’esistenza contro il niente», ci ricorda Lenzini nel concludere un suo saggio del 2017 (che ora leggiamo in Note di servizio); e allora non resta che raccogliere questo invito e moltiplicare l’impegno, com’è vero che dal 1994, anno della scomparsa del poeta, a oggi, il niente non ha fatto che crescere.

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